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SOUNDS OF SILENCE

Ogni Silenzio Un Frastuono DiVerso (che pensato suona meglio)

Vado avanti con i matematici misteri precisi matematici irrefutabili matematici
Per caso, il 09/11 del 2021, un avvenimento del ’38 compie 83 anni.
38 ed il suo contrario 83.
Per caso, sommo 9 al primo e tolgo 9 al secondo. ne esce una nuova coppia di numeri opposti: 47 (38+9) e 74 (83-9)
Proseguo: 47+9 e 74-9: altra coppia di numeri opposti, 56 e 65. Va avanti così fin quando restano numeri interi maggiori di 0 a due cifre: 65 e 56, poi chiaramente 74 e 47, 83 e 38, 92 e 29.
Prendo un altro numero a caso, il mio anno di nascita, il 72. il suo opposto è 27. Di nuovo, procedo a sommare 9 al più piccolo e sottrarre 9 al più grande.
Risultato? da 27 e 72 si passa a 36 e 63, 45 e 54, 54 e 45, 63 e 36, 72 e 27, 81 e 18, 90 e 09.
Ora, fallo anche tu. Con qualsiasi numero di due cifre. Prendi un numero, prendi il suo opposto, somma 9 all’uno e sottrai 9 all’altro, ed avrai sempre e comunque coppie di numeri opposti.
Ma che regola è?

(segue…)

(segue 2… : come conciliare il numero 9 (quadrato di 3),  sua somma e sottrazione che produce gli opposti numerici, parallelamente il fatto che la differenza tra OGNI NUMERO ed il suo opposto è SEMPRE divisibile per 9 e congiuntamente il fatto che la differenza del prodotto tra due numeri A CASO ed i loro opposti sarà sempre SEMPRE divisibile per 9? ma è chiaro: con il teorema del quadrangolo magico!)

MARADONA 30 OTTOBRE SEMPRE

Quando mi passò accanto, mi carezzò i capelli, prese la mia agenda del 1985 in mano e con uno scatto – eterna – la rese.

Auguri D10.

9 29 49

(stupidissimo dialogo sui minimi sistemi)

– ah, ma io mica lo sapevo, mica mi ricordavo di averne bucati così tanti!
– Ma di palloni, ma di cosa stai parlando?
– Eh no: palloni, ma e mica. Questo è quello che pensavi quando ti beavi di voler cambiare, di voler   fare la rivoluzione delledall’linguaggio?
– Non ti seguo, ora davvero precisamente no.
– Sbagli: ad usare tutti quegli avverbi di modo ed a pensare di non seguirmi, cioè seguirti.
– Stai forse insinuando che….
– Non usare un linguaggio stereotipato.
– Però tu hai ripetuto due volte la parola usare, e due la parola linguaggio. ed a furia di ripetere, anch’essa due volte, la lingua si usura.
– L’usura è peccato.
– il peccato è sprecato.
– Lo spreco è il tempo non coscienzionato.
– Coscienzionato è un bel modo di rivolu… di ristrafatizzare il pensiero.
– Tu sei dentro di me.
– No, anche se dimentichi, o non ricordi di ricordare, tu non sei espressamente – uso l’avverbio per provocare – espressamente dentro di me, tu sei me.
– Lo sapevo da prima di te: brinda con me.
– Sì, brindo con te. Che da qui comincia il mezzo secolo, la fine indotta.
– Sarà bello provarci insieme.
– Avevi dubbi?
– Avevo.
– Ho.
– Cos’hai?
– 49 anni.
– Lasciami un segno, dai.
– No, non do: ti HO, detto. Do. So. Io.
– Do è una nota?
– Colorata?
– Ancorata?
– Ancora tu.
– Ma non dovevamo veder… si vabbe’
– E per questo, qui fu.
– Fummo, semmai. E non fu: è.
– Una cosa, una sola cosa, che resti, che mi dia la voglia di leggerti e scriverti ancora.
– Usata già parola.
– Fottiti.
– Potessi.
– Poetessi.
– Poesia.
– Vai via.
– Ti troverò.
– Non lo so.
– Ora sì.
– Resta qui.
– Ci sto.
– Ci stai?
– Finché ce ne hai.
– Ce ne hai?
– sì:
– quanto fai?
– sette(mbre) x sette(mbre)

– quanto fa?

– 49

Agevolo tabella

Venerdì 1972 1978 1989 1995 2000 2006 2017-2023
Sabato 1973 1979 1984 1990 2001 2007 2012-2018
Domenica 1974 1985 1991 1996 2002 2013 2019
Lunedì 1975 1980 1986 1997 2003 2008 2014
Martedì 1981 1987 1992 1998 2009 2015 2020
Mercoledì 1976 1982 1993 1999 2004 2010 2021
Giovedì 1977 1983 1988 1994 2005 2011 2016-2022

LE COSE CHE PENSANO

“Esiste un solo modo per dimostrare le cose che si dicono: semplicemente dicendole.
Allo stesso modo in cui, non dicendole, si dimostrano le cose che si pensano”

Vecchioleviatano 2017

Nel momento in cui si esibisce e si mostra, la parola si DI-MOSTRA, mostra cioè se stessa, e quello basta: non è l’impegno che contiene a fare una differenza tra il dire e l’eventuale poi, l’eventuale fare o il disfare stesso, il disfare se stessa. Qui non si ragiona di un tema a puntate, non c’è una premessa e una conseguenza, qui è una parola, anzi: LA parola, che producendosi produce se stessa, che mostrandosi dimostra la sua essenza e la sua esistenza. La parola detta mostra se stessa e basta, si automostra e quindi dimostra senza bisogno di un prosieguo, di una ulteriore dimostrazione.
Ciò che non può mostrare, e quindi di-mostrare, è il pensiero che ci sta dietro, che è dietro di essa e dietro in generale, perché ogni parola esibita è, che lo si voglia o meno, il risultato di un pensiero, logico o illogico, motivato, istintivo, ragionato inconscio, quello che sia quale che sia.
Sicché, l’unica cosa logica e razionale, è che il pensiero, come tale non disvelato, non mostrato – a differenza della parola che si svela – è dimostrato solamente dal suo opposto, dall’opposto della parola, cioè dal silenzio. Il non mostrato è per forza di cose mostruoso, e cosa è più eloquente del silenzio per mostrare un mostruoso indimostrabile?
In sintesi, il pensiero è indimostrabile nel senso che non viene mostrato, quindi è muto. La parola, essendo l’opposto del silenzio, dimostra la sua esistenza mostrandosi, esattamente e specularmente al modo in cui, da dietro le quinte, il pensiero dimostra la sua esistenza non mostrandosi.

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E quanto è rassicurante tutto questo pensiero, scritto ma non detto, composto di parole che il pensar non me le dette ma le dettò non maledette, in questi stessi tempi impensabili che non doveva andare così, non dovevano dirsi così, per finire senza parlarsi più.

RIPOSANDO ASCOLTANDO

musica all’ombra a bordo dell’acqua in quella particolare predisposizione e condizione di vacanza cui la mente, illudendosi di essere libera, si libra spiccando salti verso pensieri inusitati che s’eran sempre trasformati – stesso per dire ieri – in poesie, aforistiche riflessioni puntuamente trascritte carta e penna, ma oggi un catetino è rimasto immobile e l’altro si espandeva e così il compitino è venuto anche più carino, che ci sta pure il disegnino. Come dici? Va tutto bene?

ESSERE FRANCO

(Vivido, molto vivido e preciso: non il mio solito sogno confuso, slabbrato, catastrofico, fuori fuoco, privo di margini, confini, nitidezza e nettezza. Lì, nella cucina, sul tavolo sgombro: un cellulare dentro una custodia di pezza color arancione. Ho pensato fosse di mio padre: non essendo il mio, di chi altri? Che quindi lui fosse effettivamente presente in casa, che fosse tornato? Era così: apparendo dal corridoio ed entrando nella stanza e sedendosi intorno a quello stesso tavolo, attraversato di sbieco dalla luce solare pomeridiana di una primavera alle porte, mi confortava della sua presenza rendendomi all’istante contento, al punto da chiedergli come prima cosa: stai andando via o resti qui con me? Mi rispondeva lucido che sarebbe restato. Poi però, un po’ confuso come negli ultimi anni, mi chiedeva cose – per me – concettualmente slegate e casuali: di zio, della cena, ed io – conscio del suo stato – lo tranquillizzavo rispondendogli in modo precisamente vago. Mi preoccupavo: e se durante la notte avesse avuto bisogno di aiuto? Ne sarei stato capace? Ma in fondo sì, e in fondo perché allarmarsi anzitempo? Eravamo lì, eravamo insieme, dopo tanto tempo, per un’ennesima – più che un’ultima – volta. Tanto bastava: era bello così).

Poche ore dopo, da sveglio (“i’m wide-awake/i’m not sleeping”) ho alzato la testa dalla mia postazione di lavoro guardando spontaneamente verso il televisore nella grande sala d’attesa. E lì, in sovraimpressione, c’era il lancio di un’ultima ora – assai parallelo a quello della famosa pomeridiana del 25 novembre: perché, come allora, sono rimasto impietrito per 5 secondi leggendo quelle parole prive di senso, e spontaneamente mi è venuto di pronunciare un “noooo” ad alta voce; ma stavolta, a differenza di allora, la sala era piena, e non potevo piangere da fermo, lì, al pc, tra caos, genti, colleghi e così, come un automa, mi sono discretamente alzato, ho attraversato il corridoio interno che mi separava dal bagno della diagnostica, e quindi, in un anonimo mattino del 18 di maggio, come un bambino smarrito, ho cominciato a singhiozzare senza freni, da solo.

E’ passato meno di un mese dalla morte di Milva, e da quello svolazzo a lei dedicato dove avevo scritto tralaltro queste parole: “…qualche anno dopo, agli inizi degli ’80, io e Sandro avremmo imparato a conoscere ed amare perennemente quello che era davvero l’ispiratore del nostro genitore: Franco Battiato. Ricordo ad esempio il Natale dell’82 che mamma gli regalò “L’arca di Noè” ma prima di impacchettare la musicassetta la fece ascoltare ad entrambi”.

Sì, perché la costante iconografia che ho di Battiato, è questa intima connessione con le cose di casa, con i momenti speciali, con gli intrecci insondabili di mistiche parole che mio padre cantava, che noi imparavamo a memoria senza capirne il significato, ammesso che oggi invece. E, in quell’irripetibile ed indimenticabile periodo degli anni ’80, tutto tracima e si moltiplica ed imprime con danza divertita e tribale le visioni di bambino che mi porterò dietro, finché la mia memoria reggerà. Perché l’estate su una spiaggia solitaria è oramai identificata con la Torretta di Seiano; perchè la visuale dal Moon Valley di questo scenario non potrebbe trovare altra espressione umana che quella di No Time No Space. E perché potrei stare qui ad evocare mille altri perché, per ognuna di quelle canzoni che mi hanno cresciuto, e che d’istinto identificano un passaggio di consegne generazionali forte come le radici, all’interno di una famiglia, tra un padre ed un figlio, che circolarmente si interrompono e si chiudono su se stesse, recidendo e postulando ad un altrove il senso della perfezione, per rinascere e fecondare un domani od un domai.

Ma c’è una scena, anzi tre, che citerò a cesura sulla carta ingiallita dalle lacrime del mio libro dei ricordi.

Prima scena: il video amatoriale da me girato in occasione del matrimonio di mia sorella dove in sottofondo, nella scena iniziale dei preparativi casalinghi tra parentame di ogni ottima risma, a sottofondo musicale, assai fondo quasi per discrezione più che per imperizia tecnologica di un quarto di secolo fa, si sente Battiato cantare “Strani Giorni“.

Seconda scena che si collega alla prima: mio padre giù nel suo studio, rimasto solo dopo la morte di mamma. L’ascolto incessante, straziante, dell’Oceano di silenzio. L’ultima canzone di Fisiognomica, che io corsi – come fuga disperata – a comprare il 30 aprile del 1988, esattamente il giorno dopo aver saputo della malattia di chi mi mise al mondo, dalle sue parole definitive e finali. Quell’album, nella mia testa, raccorda il periodo più atroce della storia di una famiglia, ancora al suo nucleo completo per pochi residui mesi. E quando dopo tutto finì, questa immagine di mio padre che assorbiva, sublimava, trascendeva il suo dolore letteralmente inconsolabile ascoltando quella canzone si è traficcata nella mia anima in modo lancinante. Ecco perché questa seconda scena è collegata alla prima: perché, 8 anni dopo l’88, durante il matrimonio del ’96, quella fu la volta che vidi mio padre veramente felice da che lutto perenne ebbe luogo. Ed ecco perché musicai la scena di casa prematrimoniale con Strani Giorni. Era una mia verità banale ed intima, stupida ed insignificante. Ma quella sera, dopo il matrimonio, mi accadde una cosa talmente ugualmente strana e trascendentale da spingermi tra le braccia di mio padre in lacrime. Anche questa scena, trasformata poi in una mia poesia, continua a trafiggere il mio spirito, e di questo forse un giorno tornerò a scrivere – non è questo il tempo né lo spazio.

Ultima scena, la terza – la devo a me stesso: a quel fanciullo di quei meravigliosi anni ’80, quello di cui ho parlato nello scritto epocale in cui ci siamo lasciati per sempre. Discoring, La Voce del Padrone che frantuma ogni record, Franco Battiato che agita la sua bandiera e canta – in bianco e nero, e da sotto quella piccola tv, il fanciullo ipnotizzato guardava. Era molto elementare ed icastica la sua immaginazione visuale della realtà, e pertanto ai suoi occhi (alle sue orecchie) quella frase suonava male, e anzi: suonava proprio come vedeva: di un uomo che sventola una bandiera bianca, dal che ne derivava – per sconoscenza del verbo medesimo: “sul ponte svento la bandiera bianca”. Perchè “sventola bandiera bianca” era insensato: la bandiera mica sventolava da sola? c’era un uomo che parlava indubbiamente in prima persona, con la bandiera in mano. Pertanto: sul ponte svento la bandiera bianca. Fino a ieri, ognuna delle mille volte in cui l’ho cantata, l’ho pronunciata esattamente così, ridendomi amaramente, dolcemente, indissolubilmente, francamente dentro.

Ora non più: grato a Franco Battiato per l’oceano di emozioni e di legami sentimentali che mi ha donato, da oggi, travolto e sconquassato, finito il sogno ed essendo ben sveglio, da oggi mi arrendo e dentro me sventola bandiera bianca.

BATTIATO MILVA PAPA’

Avrò avuto 6 anni e sì, perché questo ricordo della memoria che prende sempre più le distanze da me mi suggerisce che fosse tipo un compito dato dalla maestra delle elementari, o forse solo un gioco tra noi fratelli, ma comunque insomma erano domande sui gusti dei genitori ed alla domanda di mamma su chi fosse la cantante preferita di papà io risposi: Milva. Ovviamente indovinai, ma l’ovvietà sta nel fatto che: io dissi il primo nome che mi venne in mente e credo uno dei pochi che conoscessi all’epoca; e mia madre mi disse bravo, ma ovviamente lo fece per compiacermi (sono certo di ciò o comunque preferisco pensarla così). In realtà qualche anno dopo, agli inizi degli ’80, io e Sandro avremmo imparato a conoscere ed amare perennemente quello che era davvero l’ispiratore del nostro genitore: Franco Battiato. Ricordo ad esempio il Natale dell’82 che mamma gli regalò “L’arca di Noè” ma prima di impacchettare la musicassetta la fece ascoltare ad entrambi – tanto per dire. Ciò che non potevo ricordare, perché non lo sapevo e perché non si finisce mai di ignorare, è che Franco Battiato avesse scritto degli album per Milva e che il primo, “Milva e dintorni”, fosse proprio del 1982 – che assurda incredibile sovrapposizione di artisti e di date, di epoche di infanzie che non torneranno più – tutte convogliate in un aneddoto concentrico legato a nostro padre.

Oggi, che Milva è morta, e che come Battiato, e come papà, era malata di alzheimer, trascinato dall’emozione che la scoperta di questa cosa ha scatenato dentro me, ho ascoltato quell’album del 1982: “Milva e dintorni“.

Ascoltando e piangendo, restando muto pensando che solo la musica salva la vita. Purtoppo.

NON A CASIO


(Mentre guardo l’orario in una ennesima notte insonne, immagino di recitare questo innocuo monologo personale – che lascia il tempo che trova)

io reputo che tutta la mia inclinazione e declinazione umana, emotiva, filosofica ed esistenziale possa dipendere da un oggetto e da una circostanza: l’orologio, e l’averlo ricevuto in regalo sin dall’età della ragione d’infanzia. è, era lo scorrere delle lancette – in realtà il procedere digitale dei secondi, dei minuti e delle ore – che trascinava a rimorchio il passaggio del tempo universale, ed era il sole che si adeguava a quello stesso fluire continuo zompettandovi dietro a rotazione, per quanto fosse poi la terra a ruotarvi intorno – al sole/ ass hole; ed era quello un bene di così prezioso valore, assoluto, come detto universale, che andava ammortizzato in sostanza perenne, cioè guardato con costanza maniacale, un dato materiale insito nel DNA umano che mi era stato recapitato – da chi, per cosa, per QUANTO e QUANDO? E sin da quel primo istante, quei momenti di morsa ribelle al lato sinistro scorrevoli continui consecutivi irreferenabili non interrompibili, la mia umanità è stata segnata, e di qui di là – in poi – tutto il mio sistema esistenziale si è formato, conformato, evoluto, ed approdato assodato consolidato al resto di se stesso. Questo è il dato: non a caso, per caso, con caso – forse: ma con il casio al polso. Sono assolutamente, assolatamente, assoltamente convinto di ciò – che HO.

(poi forse mi sono addormentato…)

FACCIA A FACCIA CON L’ABISSO

Nella notte tra il 24 ed il 25 marzo sono certo di aver vissuto “l’apice più intenso ed acuto di pessimismo emotivo, umano, cosmico, universale mai raggiunto” (come da mio diario). i motivi scatenanti mi sono noti, e così le premesse filosofiche: questa esistenza individuale di autocoscienza che si protrarrà in altri modi e forme per tutta una serie di cicli infiniti (la novitazione), infiniti di (auto)coscienze personali slegate le une dalle altre, che vivranno e patiranno perennemente come è nella natura non umana ma universale, rinchiudendoci irrimediabilmente in una gabbia tragica da cui non sarà possibile scappare, impossibile sottrarvisi se non per brevi momenti di sospensione della coscienza (il sonno, oppure la pausa tra una esistenza e l’altra, come spiegato in oltre la novitazione) – ma comunque intrappolati, sepolti vivi: una tale angoscia, un tale senso di impotenza, di condanna, di moritificazione di mente e spirito da azzerarmi per tutto il prosieguo della notte insonne, e della mattinata lavorativa vissuta da vegetale. Finché, mentre tornavo a casa guidando tra curve note e spesso foriere di intuizioni, ho avuto questo sorta di oscura illuminazione: è vero, questa mia asserzione è logicamente inattaccabile – dal mio punto di vista: è la mia verità filosofica inappuntabile ed inappellabile. Ma, in un universo infinito – che è la premessa di ogni mio ragionamento e di ogni mia conclusione – possono esistere altrettante infinite verità, uguali e contrarie alla mia. E cosa mai mi assicura che la mia sia la verità che prevalga sulle altre? Uno fratto infinito?

Quindi, con un giochetto mentale che mi pone ad una dimensione surreale della storia (mi tengo stretta la mia verità, sapendo che ha probabilità di veridicità pari a zero, senza sapere se sperare che ciò sia un bene od un male – laddove un’altra verità non sia addirittura peggiore della mia – vortici filosofici da apnea), ho superato brevemente angoscia ed attacchi di panico. Ed a questo punto, restando inalterata la preferibilità senza condizioni del non nascere proprio (ennesimo paradosso: perché solo nascendo, e premesso che la non nascita è impossibile perché, come da novitazione – la non esistenza non esiste, dicevo solo nascendo si può in coscienza preferire il non nascere) ne sorge un altro che si appiglia disperato ma ridente a quella sorta di oscura illuminazione: che io possa ritrovarmi in una situazione di cosciente non esistenza preferendola, come da logica del tutto, a qualunque tipo di altra infinita e cosciente esistenza. Si tratta di una ennesima opzione mentale paradossale che per logica, e volontà, non è possibile escludere a priori, in un universo di infiniti universi inimmaginabili.

Rivoltandone gli abissi in cui mi ficcai in una notte rivoltante.

(A) MIO PADRE

Mi piacerebbe che esistesse la favoletta bella dell’aldilà, anche a costo di finire io – sicuro – all’inferno perenne, in cambio di saperti finalmente di nuovo insieme alle due persone che più hai amato.

Ai piani superiori, ovvio.

Salutamele.

(20 anni fa scrissi questo. Non cambierei una parola.)

 

MIO PADRE

 

L’aria è ferma

ed oggi è maggio.

Un fatuo pomeriggio

sospeso ed irreale

dall’unico rumore

di un placido irradiarsi

dei mistici solari

sul fianco orizzontale della casa.

La brezza inesistente

si espande lungo stanze e corridoi.

Mi muovo compunto

diacronico ed inerme

piacevole coscienza

dei propri movimenti nello spazio.

Niente è pesante, niente è angusto.

Temevo che l’estate

spazzasse via la grandine

ed i crepuscolari tramonti anticipati.

Invece, tutto è lieve

e culla dolcemente

un mare di visioni non forzate.

Mio padre ondeggia un libro

– antiche divisioni –

disteso sul divano.

Osservo i suoi occhi miopi

e la nuca imbiancata.

Questi muri, in altri tempi,

ed altre suggestioni

mitigavano le risate e le parole di una famiglia.

Adesso siamo noi due.

Domani non so.

Leggevo il suo pensiero,

ed ho aperto le tende

per dare più colore

alle sue pagine sfiorate.

Egli mi ha ringraziato

con soave distrazione.

Volersi e darsi il bene

non è obbligo di sangue

è cosa che assomiglia

al viaggio dentro l’anima.

Nell’ultimo mi si confessò

discreto, come sempre

riservato con pudore

come a non voler colpevolizzare la vita.

Un’innocenza tanto candida quanto spiazzante

da non darmi il coraggio di infierire, di profferire verbo.

Ne verserò di lacrime, sarò ancora della partita

quando lui cesserà.

La consapevolezza è una circostanza dura

bisogna fronteggiare la paura

per esserne all’altezza.

Ho scelto così, con estrema perentorietà.

Volergli bene, e tenercelo nascosto a vicenda.

Sono i rimpianti della vita, della casualità.

Forse agitai alcuni fogli

e spedii qualche sguardo.

Ma non bastò al riguardo

e scesero dal cielo neve e foglie.

A volte l’incantesimo

ti prende per mano e poi svanisce

lasciandoti nel bel mezzo di un’emozione

o di un freddo acuminato.

Questo è il mio testamento di dolcezza e di affetto.

Nessun suono, nessun effetto speciale.

Ti voglio bene, te ne ho sempre voluto, e non lo saprai mai.

Responsabilmente, mi contrarrò nel dolore rileggendolo.

Quando non ci saranno più tende da aprire

né pagine di libro da schiarire

capelli bianchi da osservare

e mani che modellavano la creta.

Un’intenzione vale maggiormente.

La mia anima stracciata si schernisce.

Ha avuto un eccellente maestro.

Di più.

Un genitore degno e silenzioso.

Di più.

Mio padre.

 

– Vecchioleviatano 2001

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