Category: 29 settembre


Oggi compio 50 anni e questo post è completamente plagiato ordunque ispirato da quello scritto esattamente 10 anni fa a quest’ora (più o meno: ma cosa è un più o meno in faccia a un mezzo secolo? A pensarci trasecolo). Ancora infatti pur oramai disancorato avviato in alto ed altro mare, nel mio rinnovato ribadito sbiadito modo di non credere a nulla, credo ci siano cose simboliche, date sicuramente (e/o restituite: male, più che mai).
Oggi 29 settembre è di fatto necessario considerarla una di quelle, perché transeat per i giochi di parole 40 = forty = forti (sensazioni), o i quadratini deliranti di un anno fa (che però ho opportunamente aggiornato), la ricerca degli scontrini dei non dico 49 precedenti ma quasi, ma qua spacchiamo fifty fifty il secolo breve, precisi e secchi come solo l’orrore di guardare in faccia l’errore (e viceversa) prima di ridere di sgusto potrebbe fare. Non so se il tempo mi darà tempo di cambiare idea, e francamente non mi interessa quasi più,
all’età
(di cui ognuno è figlio. e al tempo stesso padre e madre. e anche sorella e fratello. e così, come in una messa, messi tutti).

E sia.

Ciò su cui non cambio idea – è matematico e pertanto lo ricopio identico –
è la convinzione che tutto questo non valga la pena,
né per me né per nessun altro.
In questa mia certezza mi ritrovo solo (non più tanto, invero. e non so se sia un bene o un male. intendo per colui il quale), benché la convinzione sia di caratura ontologica (non strettamente personale, anche perché, specie negli ultimi anni, di strada se n’è fatta assai)

Pure, essendoci mio malgrado (forse…!) e – lo ripeto: se potessi scegliere, anzi – paradosso – : se avessi potuto scegliere, avrei scelto di non nascere –
gioco il gioco che il simbolo richiede
ed elenco quelle che sono (qui il plagio si incrina un po’)
le cose (generico: 10 non ce le trovo) per le
quali varrebbe la pena vivere
se veramente valesse la pena vivere.

Metto ciò che resta:

la musica sì (la canzone è DATA)

il pollo sì (la foto è DARIA)

il bere (che stava inopinatamente nel commento e non nel post orginale) sì (la foto è TRINITATA)

il tramonto – ma giusto per come lo descrissi (e infatti non metto la foto, lascio l’immaginario)

e Praga in senso scaramantico sperando di rivederla, anche se i miei schemi numerici sono saltati per aria, gli incastri i desideri e le magie: tutto polverizzato.

il restante è di contorno (fatti salvi i miei capisaldi letterari che non elencherò, perché li so).

Lo scandalo è la sparizione del Napoli. Quando scrissi quel post, se fossero venuti da me queruli e questuanti tutti i me di un futuro cominciato da qualche anno (due o tre) a scandalizzarsi che 10 anni dopo non ci sarebbe stato, li avrei rispediti al mittente, argomentandone con un cenno della mano inequivocabile l’impossibilità. Inequivocabile tanto il cenno quanto l’impossibilità. Che poi come si vede non esiste, al limite l’improbabilità. Che poi come si vede non era potenzialmente tale, nella tremenda fattispecie.

Le altre rimasuglie sono spunti. Le aggiunte o le varianti, transeunti. Ma attenzione: io non dimentico. Ho così cari i miei sterminati ricordi che nessuno è riuscito a sterminarmeli, di persone, amori, momenti, situazioni, illusioni, circostanze fantastiche e straordinarie. Ma qui si sta filosofeggiando su un apriori e, ad esso connesso, su una ipotetica. Quindi non sporco nemmeno di striscio le mie memorie, che pure non torneranno più.  
E ci credo
.

Abbrevio così: sto viaggiando al tramonto (verso la costiera? verso casa?), mi attende un negroni, un pollo ed una birra, e sto ascoltando la radio (anagramma di dario) in macchina.

Le sensazioni forti, quelle intense e brevissime, di cui lì scrivevo, e che oggi vivo a tratti assai tenui, hanno sostituito le emozioni di un tempo. Ammesso che non fossero lo stesso fenomeno, racchiuse complete in uno stesso complesso e compresso noumeno.

Mi piace ancora scrivere, ma non so se mi ritroverai ancora qui tra 10 anni.
Ascolta però: sai come pronuncia un mezzo bleso al secolo (mezzo) zeppolaro le parole seguenti?

RE-fifti ed IN-fifti.
IN-fifty e RE-fifti.

REfifti ed INfifti.
L’autoaugurale mia genialità sta tutta qua.

Buon mezzosecolo mezzasega VecchioleviadORO!

(stupidissimo dialogo sui minimi sistemi)

– ah, ma io mica lo sapevo, mica mi ricordavo di averne bucati così tanti!
– Ma di palloni, ma di cosa stai parlando?
– Eh no: palloni, ma e mica. Questo è quello che pensavi quando ti beavi di voler cambiare, di voler   fare la rivoluzione delledall’linguaggio?
– Non ti seguo, ora davvero precisamente no.
– Sbagli: ad usare tutti quegli avverbi di modo ed a pensare di non seguirmi, cioè seguirti.
– Stai forse insinuando che….
– Non usare un linguaggio stereotipato.
– Però tu hai ripetuto due volte la parola usare, e due la parola linguaggio. ed a furia di ripetere, anch’essa due volte, la lingua si usura.
– L’usura è peccato.
– il peccato è sprecato.
– Lo spreco è il tempo non coscienzionato.
– Coscienzionato è un bel modo di rivolu… di ristrafatizzare il pensiero.
– Tu sei dentro di me.
– No, anche se dimentichi, o non ricordi di ricordare, tu non sei espressamente – uso l’avverbio per provocare – espressamente dentro di me, tu sei me.
– Lo sapevo da prima di te: brinda con me.
– Sì, brindo con te. Che da qui comincia il mezzo secolo, la fine indotta.
– Sarà bello provarci insieme.
– Avevi dubbi?
– Avevo.
– Ho.
– Cos’hai?
– 49 anni.
– Lasciami un segno, dai.
– No, non do: ti HO, detto. Do. So. Io.
– Do è una nota?
– Colorata?
– Ancorata?
– Ancora tu.
– Ma non dovevamo veder… si vabbe’
– E per questo, qui fu.
– Fummo, semmai. E non fu: è.
– Una cosa, una sola cosa, che resti, che mi dia la voglia di leggerti e scriverti ancora.
– Usata già parola.
– Fottiti.
– Potessi.
– Poetessi.
– Poesia.
– Vai via.
– Ti troverò.
– Non lo so.
– Ora sì.
– Resta qui.
– Ci sto.
– Ci stai?
– Finché ce ne hai.
– Ce ne hai?
– sì:
– quanto fai?
– sette(mbre) x sette(mbre)

– quanto fa?

– 49

Agevolo tabella

Venerdì 1972 1978 1989 1995 2000 2006 2017-2023
Sabato 1973 1979 1984 1990 2001 2007 2012-2018
Domenica 1974 1985 1991 1996 2002 2013 2019
Lunedì 1975 1980 1986 1997 2003 2008 2014
Martedì 1981 1987 1992 1998 2009 2015 2020
Mercoledì 1976 1982 1993 1999 2004 2010 2021
Giovedì 1977 1983 1988 1994 2005 2011 2016-2022

tu mi chiedi di Maradona, ma io non ti racconterò di Maradona: della sua vita hanno parlato in tanti, in troppi, in tutti. Tu mi chiedi ancora di Maradona, ed io allora ti parlerò della vita di un bambino, il terzo di 4 figli di una famiglia di Napoli, e ti racconterò 7 anni di storie intrecciate, semplici complessi incancellabili fotogrammi della memoria, e lascerò che sia tu con la tua sensibilità, con l’amore di queste parole, a capire la vera storia di Maradona, attraverso la storia di quella famiglia.

Questo racconto comincia nella primavera del 1984, quando questo bambino di quasi 12 anni sognava di vedere giocare nel Napoli il Grande Campione, e ritagliava foto e notizie dai giornali sportivi, e ci riempiva i suoi quaderni a quadretti, ed ogni giorno il grande Campione si avvicinava al Napoli, ma il giorno dopo se ne allontanava, e lui tagliava e ritagliava quel saliscendi di titoli di giornale, e modificava i suoi piccoli commenti accanto a quei ritagli incollati nel quadernetto.

E poi un sabato, il 30 giugno dell’84, alle 8 della sera, quando il trasferimento del secolo sembrava oramai sfumato, e quel bambino era sospeso sulla scaletta che conduce al soppalco per andare a prendere i costumini e le scarpette da mare (che il giorno dopo si andava con la famiglia a Seiano) il telegiornale dalla televisione in bianco e nero alle sue spalle annunciò che la trattativa per Maradona a Napoli si era riaperta a poche ore dalla chiusura del calciomercato.

E così, tutta la sera e tutta la notte, quel bambino e il suo papà rimasero in cucina a guardare le televisioni private, finché in sovraimpressione non comparve la scritta “Maradona è un giocatore del Napoli”. E quel bambino abbracciò forte suo padre.

Poi venne luglio, e dopo la storica presentazione di giovedì 5 allo stadio,  il Napoli andò in ritiro a castel del Piano, e nella prima amichevole Maradona segnò un gol in rovesciata, e quel bambino cominciò a vedere le sue prodezze in televisione, e cominciò a sognare. Ad agosto, quella famiglia di Napoli non andò in vacanza, ma una domenica di inizio settembre fece visita ai parenti della mamma a Vico equense/Seiano, e quella domenica in coppa italia a Pescara il Napoli vinse 3-0 e Maradona (che già era andato a segno nelle precedenti partite) realizzò una rete da terra, astrale: seduto spalle alla porta. Quel ragazzino vide il gol con i cugini della mamma che sembravano felici ed entusiasti, ma il più contento di tutti era lui.

Perché il campionato era alle porte, e la vita pure.

Ma il campionato non cominciò bene, il Napoli perse a Verona. Uno strano segno del destino, perchè quel Verona, proprio in quel campionato, avrebbe vinto il primo scudetto della sua storia e forse, chissà, fu proprio l’impronta del Campione nel suo primo campo calcato in campionato a marcare questa bizzarra controversa paradossale magia.

Una settimana dopo Maradona segnò il primo gol al San Paolo, su rigore, pareggiando contro la Sampdoria: quel ragazzino, con la radietta nella sua stanzetta, avrebbe sperato di vincere, ma all’inizio le cose non andarono per il verso giusto, e quando venne natale la sua squadra del cuore era messa davvero male.

Ma questo non intaccava l’entusiasmo di quel ragazzino. In casa c’erano altri tre figli. C’era una sorella maggiore che avrebbe giocato un ruolo decisivo nell’amore tra quel ragazzo ed il suo Campione, ed altri due maschietti, il più grande era certo il più intelligente e cristallino, ed aveva vissuto dai racconti di un suo amico l’epopea del grande Torino, e del Torino del ‘76 che rivinse uno scudetto dopo la tragedia di Superga, e che per questo aveva il cuore granata. Poi c’era il ragazzino protagonista di questa storia, il più furbetto e coccolato dei figli; e c’era l’ultimo bambino, il più piccolino, talmente estroso ed inclassificabile da poterlo definire fuoriclasse, a modo suo. I due maschietti più grandi si sfidavano a colpi di poster sui muri della loro stanza: per un ritratto di Diego, una gigantografia di Junior, per la squadra azzurra al completo immortalata sulla parete di un letto, la risposta granata sulla parete opposta. E molto spesso, i due fratelli coinvolgevano il più piccolo, l’inclassificabile fuoriclasse biondo, nelle loro rivalità, magari aizzandolo a strappare un poster per fare dispetto all’altro. Giocavano però anche tra di loro, in modo affettuoso, fantasioso, meraviglioso: il più grande tirava le punizioni alla Junior o alla Maradona, il più piccolo sul letto si posizionava in barriera, e l’altro – sul suo letto eretto a porta – provava a parare: era un tridente di giochi davvero impareggiabile.

Così, quando venne il natale dell’84 ed il più grande dei tre fratelli maschi ebbe in dono una kodak, fu proprio con quella kodak che scattò le foto a Maradona, ed al suo fratellino dentro il campo di allenamento a Soccavo Paradiso, dove il papà li aveva condotti, grazie all’amicizia con il preparatore atletico del Napoli che insegnava nella sua stessa scuola. Fu il giorno in cui il nostro ragazzino restò paralizzato, con l’agenda degli autografi tra le mani tremanti, davanti al suo idolo che usciva dal campo di allenamento, che gli passò accanto agitando la sua folta chioma riccia e che, rallentando e sorridendo, gli carezzò la testa. Quell’autografo, in quella agenda, su quel soppalco: ancora oggi, là. Insieme al ricordo di quella carezza.

Così, cominciò il 1985 ed il Napoli siglò il famoso patto di Vietri: la squadra andò in ritiro e dopo un discorso di Bruscolotti e di Maradona, a cui il primo cedette la fascia di capitano, prese a vincere. Vinse 4-3 con l’Udinese sotto una pioggia infinita, e Maradona segnò due rigori. Sempre Maradona stoppò ed incrociò a volo e il Napoli vinse a Firenze. E poi, a febbraio contro la Lazio, in un giorno triste per la morte del nonno di un amichetto di quel ragazzetto, Maradona fece tre gol, uno cadendo all’indietro spalle alla porta semplicemente immaginando nella sua iperbolica fantasia il posizionamento di avversario, portiere e porta; ed un altro direttamente dalla bandierina del calcio d’angolo. Ed a Napoli esplose la gioia. Ma niente, niente fu paragonabile, in quell’anno, a ciò che accadde il 3 novembre (proprio un 3 di novembre: un giorno in cui – 13 anni dopo – la sorella del nostro protagonista sarebbe diventata mamma), quando la juve di trapattoni che aveva vinto di fila le prime 8 di campionato scese al san Paolo in un giorno di diluvio epocale. Perché al minuto 27 della ripresa, quel ragazzino che ascoltava per radio in cucina “Tutto il calcio minuto per minuto” sentì Enrico Ameri urlare impazzito per una cosa fenomenale, una cosa che non si era mai vista, mentre la pioggia sembrava non finire più, come l’abbraccio tra il ragazzino e sua madre dopo quella punizione impossibile. “Maradoro” –  titolo il Mattino il giorno dopo, e lui ritagliò quella immagine nella sua memoria azzurra.

Quel Natale del 1985 i fratelli ebbero in dono il commodore, dopo una fantastica caccia al tesoro organizzata dai genitori, che culminò in un indizio surreale: di cercare dietro il “Marchesì” – con l’accento sulla ì. Marchesi – senza accento – era stato proprio l’allenatore del Napoli l’anno prima, il primo anno di Maradona. Sostituito da Ottavio Bianchi, si era trasferito al Como. Quindi marchesì – con l’accento sulla ì, equivaleva a comò – con l’accento sulla ò: il pacco contenente il computer, era nascosto dietro il comò della camera da letto: ora su quel comò ci sono due foto ed un’urna cineraria.

Ma quel regalo indescrivibile, quel commodore 64 del natale del 1985, amplificò il legame dei due fratelli attraverso la loro rivalità: tra cucina e stanzetta, tra radio e poster, tra giochi e sfide a Manic e Pipeline. Mentre il più piccolo, il lunare estroso bimbo biondo, si accingeva a partire per la toscana. E fu proprio in occasione della sua cresima, lui già di stanza a Livorno, che tutta la famiglia intraprese quel meraviglioso viaggio di fine maggio, tra macchina e treno. E nel ricordo del ragazzetto, quel viaggio di ritorno verso casa rappresenta uno dei momenti più intensi della sua adolescenza, perché oltre alle gioie che aveva vissuto in quel giorno, se ne aprivano altre: quel sabato di fine maggio del 1986, infatti, l’Italia da Campione del mondo inaugurava il mondiale di Messico ’86.

E furono quei mondiali a sancire il definitivo patto d’amore tra quel ragazzino ed il suo Campione. Perché quando l’Italia fu eliminata, e quando l’Argentina avanzò agli ottavi, il nostro protagonista si trovò con suo padre, la sera del 22 giugno, in quella stessa cucina e con quella stessa televisione della notte di due anni prima, del 30 giugno delle scritte in sovraimpressione, ad assistere alla più grande esibizione che si sia mai vista su un campo di calcio. Tanto che quando Maradona, in 10 secondi, partendo da centrocampo, e scartando tutta la nazionale e la nazione britannica, segnò il gol del secolo – non di quel secolo, ma di qualunque secolo – quel ragazzino si lancio a terra stralunato di meraviglia con una tale incosciente spregiudicatezza e contentezza da travolgere e far cadere sul pavimento tutti gli attrezzi del camino, che rotolando si produssero in un suono infernale e festoso che ancora oggi riecheggia in quella stanza, oggi che il camino è spento da decenni e che quegli strumenti non lavorano più, immobili nel tempo e rimasti però a scolpire quel fotogramma della memoria.

Quel ragazzino vide vincere il mondiale al suo campione, il 29 giugno a Siracusa, con suo cugino che tifava per i tedeschi, dopo un viaggio bellissimo in treno da Napoli alla Sicilia fatto con la nonna. Quella nonna che fu la prima a prenderlo per mano e portarlo in quel formicaio del mercatino di Poggioreale a comprare la maglia con l’immagine di Maradona; ed a cui quel furbetto chiedeva di comprare l’olio sponsorizzato dal suo idolo, la prima pubblicità fatta in Italia di cui non si trova più traccia. Quella nonna che durante quel viaggio gli parlava appunto dei santi, e lui che le parlava appunto di Maradona: per molti versi, dicevano le stesse cose.

L’estate del 1986 si allungò da Siracusa a Vico Equense con tutta la famiglia: un periodo meraviglioso per quel ragazzino che stava crescendo, e che a settembre sarebbe andato al Liceo.  Ma quel settembre non cominciò bene perché il suo campione venne trascinato in una triste storia di paternità rivendicata, ed il ragazzo cominciò a temere che questo avrebbe compromesso la bravura del suo idolo, distratto e distrutto da tante polemiche. E infatti, nella notte dei rigori di Tolosa, al primo turno di Coppa uefa, quando Maradona si presentò sul dischetto per l’atto decisivo, il ragazzo ebbe paura, ed allora uscì fuori dalla cucina per non guardare in televisione il tiro dagli unici metri, per la prima volta nella sua vita (la seconda sarebbe successa allo stadio, il 3 maggio del 1989). E infatti quel tiro finì sul palo. Ed il Napoli fu eliminato.

Ma da quì, da lì, da quella notte, cominciò un’altra storia. Una storia che sarebbe culminata in un 10, come il numero di maglia del Fuoriclasse. Il 10 di maggio del 1987. Talmente tutto intenso, ed immenso, ed indimenticabile, per un ragazzo di 14 anni, che quel ragazzo vi scrisse un racconto, il racconto più bello che sia stato mai scritto su quella cavalcata trionfale del Napoli dell’87. Perché scritto dal cuore di un fanciullo di 15 anni, quindi al culmine della più grande delle felicità che si possa immaginare.

1987: fu l’anno del suo primo bacio, un giorno prima della doppietta di Maradona ad Udine.

1987: la prima volta che lo vide allo stadio, con lo zio ed il cugino, a marzo contro la Juve – quando la Roma perse ad Udine, il Napoli andò in fuga, lo stadio tremò di passione e lui pensò che ci fosse il terremoto.

1987: la prima volta che vide Maradona segnare allo stadio, il 26 aprile contro il Milan, nel giorno che sua sorella decise che da quel momento lui sarebbe stato con lei sui gradoni, che doveva esserci, che doveva viverlo. Ed anche se quel giorno Maradona nascose a mezzo stadio ed a tutti i distinti – dove fratellino e sorella si trovavano – il palleggio con cui schiantò il Milan, perché troppo veloce, troppo abile, troppa magìa in quel gesto, due settimane dopo, come detto 10 maggio, loro due, fratellino e sorellona, erano ancora insieme mentre il Napoli si laureava per la prima volta campione d’Italia, e questa volta si vedeva bene, come si vedeva bene Maradona – fuoriclasse assoluto – saltellare per il campo da Capitano Campione d’ Italia.

Ed un mese dopo, Maradona capitano alzò la coppa italia mentre quel ragazzo era a Baia, perché quegli zii e quei cugini della prima volta allo stadio vi si erano trasferiti. Una coppa italia entrata nella storia, perché culmine di un percorso costellato di sole vittorie, tutte vittorie: un record che per definizione non potrà mai essere battuto.

Poi, tutto tracimò e tutto corse veloce e tutto si impresse in modo incancellabile in 3 giorni (dal 28 al 30 settembre) che cambiarono per sempre l’immaginario di quel ragazzino. Lui, che con i suoi fratelli maggiori durante la favolosa estate a Vico Equense (sarebbe stata l’ultima passata insieme da quella famiglia ma nessuno poteva immaginarlo) era stato al suo primo concerto, il 19 agosto a Cava De’ Tirreni, per vedere Vasco Rossi, il 28 settembre a Napoli, stadio collana, avrebbe riassistito a quel concerto, e Vasco Rossi quella sera avrebbe cantato una canzone intitolata: “15 anni fa”. Quella sera, incredibile: proprio la notte in cui quel ragazzo avrebbe compiuto 15 anni. E per i quali avrebbe ricevuto dalla sorella un regalo inestimabile: il biglietto da 120.000 lire per i distinti, 30 settembre mercoledì, in occasione della prima partita della storia giocata dal Napoli al san paolo in coppa dei campioni. La partita (il più bel primo tempo di calcio mai visto) di quando quella sorella dovette placare a schiaffi le urla isteriche del suo fratello minore.

Ma il Napoli da quella coppa, dopo quel pareggio, venne eliminato. Eppure, stravinceva in campionato. Domeniche autunnali ed invernali di vittorie e di pioggia, in cui le uniche preoccupazioni di quel ragazzo erano legate ai viaggi che i suoi genitori, ogni 15 giorni, facevano in macchina per andare a trovare a Livorno quel biondo, lunare, inarrivabile fratellino minore.

Intanto Maradona fu ancora campione d’inverno, nel gennaio del 1988, quando espugnò Marassi con un tuffo nel fango che quel ragazzo replicò nella stanzetta, sbucciandosi le ginocchia col suo incosciente entusiasmo.

E poi tutto cambiò: la storia di questa famiglia, di quel ragazzo, e di quella squadra e di quel Fuoriclasse si ficcò in un incrocio di sconfitte e di dolore irreparabile. Anche qui altri tre giorni indelebili, tra la fine di aprile e l’inizio di quel maggio del 1988: le dichiarazioni del suo idolo lette sul giornale andando a scuola con la metropolitana: di non voler vedere nessuna bandiera rossonera allo stadio; ed il ritorno da scuola nel giorno in cui la mamma fu dimessa dall’ospedale. Sembrava un lieto fine, e invece: quello stadio finì per applaudire i rossoneri, in quel primo indelebile giorno di maggio dell’88, esattamente alla stessa ora – due giorni dopo – in cui quel ragazzo, rientrando dalla scuola alle 17.45 del 29 aprile, aveva appreso dalla bocca e dalle lacrime di sua madre ch’ella aveva un cancro. E quando la punizione irreale di Maradona allo scadere del primo tempo pareggiò illusoriamente il risultato, quello fu l’unico momento di felicità sospesa – per un attimo durato eternamente – da quei 4 mesi in poi, fin che gliela portarono via – la mamma, e l’adolescenza, nell’agosto che venne.

Ma quando finì quell’estate tragica, e ricominciò una nuova stagione, fu proprio contro il Milan, nella rivincita del 27 novembre, che Maradona andò ancora una volta oltre ogni logica, e segnò una rete che trattenne il respiro di un intero popolo per secondi durati minuti durante i quali la palla sembrava tentennare di fronte alla rete ed a tanta grandezza, man mano che vi si avvicinava: fu un pallonetto/di testa/da fuori area/in controtempo. Questa formula, quel ragazzo se l’è ripetuta per anni così: a pallonetto – pausa (senso della giocata straordinaria); di testa – pausa di stupore (lui, alto 1.68); da fuori area – pausa (senso della distanza dalla porta); in controtempo (col pallone che quasi tornava dietro, e quasi fisicamente impossibile da imprimergli forza) – pausa (di sconcerto stupore incanto assoluto).

In quell’autunno triste, in quell’inverno spoglio del 1988, c’era il campionato di qua. E la coppa uefa di là. Ci fu la settimana appunto perfetta: 20 novembre 5 gol alla juve a Torino, 23 novembre vittoria a Bordeaux, e 27 novembre – come detto: il pallonetto/di testa/da fuori area/in controtempo.

E c’era sempre la sorella che gli comprava i biglietti per quelle sfide europee in  notturna, con cui andava insieme a fuorigrotta salvo separarsi, fisicamente, fuori lo stadio: lei in curva, lui nei distinti. Fu grazie a lei che da quei distinti, la sera del 15 marzo, quel ragazzo vide Maradona cominciare con un rigore impeccabile la storica rimonta contro la juve, completata da Renica al 120° minuto, con un’esultanza letteralmente rotolata tra gradoni ghiacciati di cemento, circondato da tifosi venuti da torino – juventini – che lo aiutarono a rialzarsi, con lui che capriolava di pazzìa e che ebbe rispetto, si fece aiutare a sollevarsi, si prese i complimenti dei tifosi avversari ed ebbe la sua prima lezione di sportività da stadio, data e ricevuta. Ed era sempre lì, sui distinti, il 5 aprile della semifinale col bayer, quando il suo idolo lanciò Careca in porta al 40° del primo tempo, sotto una pioggia incalzante, e qualcuno – un pazzo, un genio – esultò urlando che “era uscito il sole”. Ed era lì, nei distinti, il 3 maggio del 1989. Poche ore prima, a casa, mise la sveglia sul casio alle 16.30 del pomeriggio, che la sorella sarebbe passata da lavoro a prenderlo, per andare allo stadio insieme. E quella sveglia, quel ragazzo poi adulto, la lasciò a perenne memoria (finché il casio si spense nel 2011) per tutti i successivi 3 maggio che vennero. Quel 3 maggio in finale, quando per la sola volta nella sua vita da stadio (e seconda in assoluta, dopo il settembre del 1986 in tv col Tolosa) voltò le spalle al campo mentre Maradona batteva il rigore che avrebbe pareggiato il vantaggio dello stoccarda, troppo emozionato per poter reggere lo sguardo su quegli 11 metri tra sé e la speranza, e quasi sull’orlo dello svenimento. Quel 3 maggio che di ritorno dallo stadio comperò la sua prima sciarpa, quella stessa sciarpa che, a distanza di 18 anni, avrebbe legato – perennemente ed a tutt’oggi – alla ringhiera del balcone di quella stanzetta di quei tre fratelli, quando il 10 giugno del 2007 (ma questa è un’altra storia)  il Napoli ritornò in Serie A, e proprio nello stesso giorno in cui il suo fratello biondo, lunare, inclassificabile fuoriclasse sarebbe tornato a vivere vicino a loro, e che lui – quell’adolescente del 1989 ora adulto del 2007 – era andato a prendere, il giorno prima, insieme al padre con la macchina, il padre delle partite in cucina, nell’ultimo viaggio insieme delle loro vite, andata e ritorno da Napoli a Collesalvetti in un solo giorno, sabato 09 giugno 2007. Ma il primo, il primo di questi viaggi, ci riporta a maggio, per tornare al nostro racconto, ed esattamente due settimane dopo quel 3 di maggio, il 17: quando con due assist (uno di testa, a pallonetto, da fuori area, a volo: ricorda qualcosa?) Maradona consentì al Napoli di alzare la coppa. E appunto lì, suo padre a sorpresa, in modo inatteso, imprevedibile, quasi come una finta del suo idolo, al termine della visione della partita (sempre insieme, sempre in quella stessa cucina), lo prese con sé e lo portò per le stade di Napoli a festeggiare. Fu il primo momento in cui si ritrovarono insieme, da soli (pur travolti dall’esplosione di gioia collettiva delle strade), felici, ad abbracciarsi dopo la perdita di una madre e di una moglie. E questo fu il 17 maggio del 1989, ed il loro lungo viaggio insieme nella lunga notte di una città impazzita sul tetto d’europa.

Venne l’estate, l’estate dei dorados, e di Maradona che voleva andare via. Ma così non fu. Ed anzi, quando a settembre si riaffacciò al San Paolo, entrando in campo nel secondo tempo di Napoli Fiorentina, pur sbagliando un rigore a pochi minuti dall’inizio della ripresa, trascinò con la sua sola presenza gli azzurri ad una rimonta strepitosa, ribaltando lo 0-2 in 3-2. E marchiando a fuoco il senso di quel campionato, che sarebbe stato proprio il torneo delle rimonte impossibili, spesso negli ultimi minuti. Eppure, in Coppa uefa, da detentori del titolo, gli azzurri stentarono: passarono il primo turno con lo Sporting Lisbona solamente ai rigori, nel mercoledì che precedette il 17° compleanno del nostro ragazzino oramai quasi adulto, il 27 settembre, proprio il giorno in cui il padre gli regalò il primo motorino. Ed era sul motorino che si trovava due mesi dopo, insieme ad un compagno juventino che ritroveremo nel corso di questo racconto, scappando da Napoli Werder Brema nella disfatta del 22 novembre, anticipo di quella che sarebbe stata una delle più grandi caporetto sportive del Napoli del suo idolo, il ritorno in terra tedesca funestato da 5 marcature avverse, nel giorno dell’onomastico di suo padre, il 6 dicembre del 1989, mentre suo fratello maggiore si prendeva una rivincita sportiva esultando di nascosto ad ogni rete nemica, spalleggiato dal suddetto compagno di tifo contro.

Sì: perché la maggiore età del suo fratello dal cuore granata, e la conseguente patente, e la macchina, aveva accorciato le distanze tra loro ed un gruppo di amici con cui ci si vedeva spesso, e sempre in quella casa: il loro storico fratello giallorosso, nato per errore in un’altra famiglia (ma nella famiglia più giusta in cui nascere), e l’amico di liceo del nostro protagonista, juventino d’elezione, che per questi stessi intrecci della vita qui esplorati sarebbe poi diventato cognato di quello stesso fratello maggiore. Una combriccola sconclusionata e confusionaria di adolescenti che lì, in quei tempi, in quella casa, in quella città, attraverso quelle rivalità, le mille sfide, le mille storie, i loro intercambiabili ed occasionali altri compagni d’avventure, hanno edificato separatamente ed unitamente le leggende indimenticabili dei loro ricordi di gioventù, reali od immaginari che siano: perché è così che si passa da essere adolescenti ad essere uomini. Anche così. Soprattutto così.

Eppure, fu proprio, sempre ed ancora suo fratello maggiore che gli diede la notizia della doppietta di Maradona, nell’unica domenica in cui il nostro protagonista era tagliato fuori dal mondo del campionato: il 25 marzo del 1990, durante la gita in Olanda con la scuola. E dolcissimo, onesto, fu quel “purtroppo” con cui suo fratello (a cui il nostro protagonista, durante quella stessa gita, rivolse forse il suo pensiero d’amore più acuto, mai detto e ed immalinconito di tutte le loro esistenze, telefonando a casa, in un pomeriggio a caso di quell’esperienza olandese, per sapere come stavano lui ed il padre) aggiunse che anche il Milan aveva vinto, a Lecce. E che i giochi per quella volata pazzesca di un campionato dominato nel girone d’andata, e perduto prima, quasi ripreso poi, erano rimandati alle ultime successive 4 sfide.

Ma ne bastò una di domenica, il 22 aprile – dopo due turni interlocutori – per sigillare il secondo scudetto. L’impresa di Bologna e la fatal Verona rossonera, in un esatto ribaltamento di ciò che era avvenuto due anni prima. Con un prosieguo post-partita indelebile, il nostro protagonista sul suo letto a ridere isterico di gioia, e suo padre con la radio a tenergli compagnia. Il tutto nel giorno del compleanno di un altro padre, quello del suo compagno juventino, tifosissimo degli azzurri, ed a cui il nostro protagonista regalò, 7 giorni dopo, il biglietto per lo stadio del secondo tricolore. Perché sì, questo intreccio di storie, di date, di gioie e dolori, ha un risvolto combinatorio davvero impressionante. Maradona capitano tornò Campione d’Italia il 29 aprile del 1990, alle ore 17.45: esattamente due anni prima, stessa ora, stesso giorno – 29 aprile 1988, ore 17.45 – quel ragazzo liceale, l’ho già scritto e lo ripeto, stava apprendendo dalle parole della madre quella amara, funesta, irreversibile verità raccontata sopra. Ed una stessa combinazione assurda di date si avrà qualche mese più tardi, quando Maradona ed il Napoli tornarono in Coppa dei Campioni e presero parte per l’ultima volta a quel torneo, che negli anni avrebbe cambiato prima formula e poi nome. Perchè dopo aver superato il primo turno, il Napoli giocò quella che sarebbe stata la sua ultima partita in Coppa campioni al San Paolo il mercoledì 24 ottobre. La sera stessa in cui il nonno del nostro protagonista, il papà di sua mamma, se ne andò.

Del resto, i figli di questa famiglia, hanno conosciuto la loro età maggiore esattamente: la sorella, nel 1984 – anno di arrivo di Maradona al Napoli; il fratello maggiore, nel 1987 – anno del primo scudetto (che può suonare come un regalo beffardo da parte del Fuoriclasse argentino, per lui cuore granata); il nostro, nel 1990 – anno del secondo scudetto azzurro; e l’ultimo, pur nella sua incosapevolezza, nel 1994, nel luglio del 1994, nel luglio dei Mondiali del 1994 – gli ultimi mondiali giocati da Maradona, con lo storico gol alla Grecia (4 presenze consecutive in 4 mondiali con almeno un gol), l’urlo di tigre nella telecamera, e poi la cacciata indegna di potentati indegni.

Ma quel 1990, dopo il secondo scudetto, ed una seconda travolgente ondata di festeggiamenti in città, fu appunto anno di Mondiali, di Mondiali in Italia e di uno snodo incredibile da immaginare, e che pure andava immaginato, ed in qualche modo calcolato e quindi evitato: la semifinale tra l’Argentina di Maradona e l’Italia. A Napoli.

Di qui, come tutti sanno, la storia tra il paese italico e Maradona lasciò spazio a vendette e veleni: venne un campionato azzurro mediocre (in cui il Napoli, altra circostanza incredibile, vinse la sua prima partita nel primo giorno in cui il nostro protagonista diventò maggiorenne) venne una coppa dei campioni persa ai rigori a Mosca, dopo il doppio 0-0 del 24 ottobre detto sopra, ed il ritorno del 7 novembre, e nel 1991 si giunse alla fine della storia, ai titoli di coda, nel modo più annunciato, complottardo ed umiliante: la provetta di urine, l’antidoping, ed una fuga notturna in solitudine. Ma anche qui, non mancò una strana magia, un simbolismo assurdo, una chiusura del cerchio da brividi: 24 marzo, ultimo gol di Maradona in campionato, contro la Sampdoria su calcio di rigore, esattamente come era cominciato tutto, in quel settembre del 1984. Ed ancora e sempre contro la Sampdoria, sempre in quel marzo del 1991, l’ultimo gol di Maradona al san paolo, in coppa italia, di testa, in uno scialbo mercoledì di una fredda serata, dove quel ragazzo, sempre dai distinti, prese congedo dal suo Campione per sempre, in viva visione.

In quell’aprile del 1991, da quell’aprile, il ragazzino di dodici anni che era cresciuto tra vicende di famiglia, di amici, di scuola e di calcio intrecciate inestricabilmente, lasciò spazio definitivamente al ragazzo adulto, il ragazzo oramai diciottenne, il ragazzo della maturità liceale, e degli anni che sarebbero venuti: l’università, il lavoro, i lutti. Ma spesso, legati indissolubilmente dall’amore ed all’amore per il loro idolo inarrivabile, quell’adulto e quel fanciullo che fu si ritrovarono insieme a godere delle gioie che Maradona continuava a spargere nella storia del mondo. Le apparizioni televisive. L’addio al calcio registrato su una vecchia VHS collegata a quel vecchio televisore di quella cucina sempre meno affollata. Gli abbracci ricevuti a Praga dal nostro protagonista, nel 1997, in compagnia del suo amico giallorosso, quando in un pub della città alcuni ragazzi di bergamo (di bergamo!) gli chiesero di raccontare Maradona, loro di Napoli, loro che lo avevano visto, avevano assistito all’Oro di Napoli! E sempre un addio al calcio giocato, quello di Ferrara nel 2005, sancì per un giorno il ritorno del Re nella sua amata Napoli, una città paralizzata ed una riconciliazione universale tra l’idolo ed ogni singolo cittadino di questo paese, che giunse a livelli inesplorati e parossistici, come testimonia una mail che quell’amico juventino mandò al nostro protagonista, una mail che lui ancora conserva, dopo 15 anni. E poi ancora: la maglietta definitiva acquistata al museo Maradona, con cui presenziò al matrimonio di un altro fratello di vita, nel luglio del 2012. E due anni prima, il tifo incondizionato per il suo idolo allenatore dell’Argentina mondiale

Intanto, la sorella maggiore aveva avuto due figlie; e così il fratello maggiore. Il padre, come detto, fu protagonista di un ultimo viaggio insieme, il 9 giugno del 2007, quando il fratello più piccolo, anch’egli oramai adulto, ma sempre metafisico ed inarrivabile, venne portato da Collesalvetti a Napoli, dormì in quella casa un po’ meno vuota, assistette al ritorno del Napoli in serie A il 10 giugno del 2007, e dai suoi occhi celesti – come il cielo di quel pomeriggio – osservò suo fratello, il protagonista di questo racconto, recuperare una vecchia sciarpa da un cassetto, la sciarpa del 3 maggio di 18 anni prima, e gli vide fare un nodo alla ringhiera del balcone di quella che venti anni prima, e prima ancora, era stata la stanzetta dei giochi di 3 fratelli.

E poi, il giorno dopo, tutti quanti, padre e fratelli e sorella, accompagnarono il ragazzo più piccolo nella sua nuova casa, a CastelCampagnano. ma anche questa è un’altra storia. In apparenza.

Perché, rimasto solo in quella casa, testimone delle sue memorie, le più belle e le più brutte, il nostro protagonista, oramai uomo adulto, giunto nel mezzo del cammin della sua vita, ed avanzato anche oltre, non si faceva mancare occasione per chiamare accanto a sé, dal dentro di sé, quell’adolescente di 12 anni con cui, e grazie a cui, era cresciuto. Ogni pretesto era buono: una foto, una canzone, un ricordo, un film. E il loro tramite, il pretesto, la scusa più bella, era il più delle volte legata al loro idolo comune, Maradona.

Così, una sera del novembre del 2019, il giorno 25, alle ore 17, l’adulto – amante del cinema – chiamò al suo fianco quel fanciullo, per vedere insieme il film che tempo prima fu proiettato al Festival di Cannes, film su Maradona, con filmati inediti di Maradona, e filmati forniti proprio da Maradona: un docu-film incentrato esclusivamente su quei 7 anni napoletani del Fuoriclasse assoluto. Logico, emotivamente e razionalmente logico che quel film lo vedessero insieme, quell’adulto e quel fanciullo: riguardava la loro vita allo stesso modo, nella stessa misura e con la stessa intensità. Così, due ore dopo, si commossero e piansero insieme: era stata una bellissima visione, ed un bellissimo pomeriggio, quel pomeriggio del 25 novembre del 2019 cominciato alle ore 17.

Poi (ed in questo poi c’è tutto l’orrore che si possa concepire, tra cui il più straziante dei lutti) si giunge all’anno dopo.

Non “un anno dopo”: un anno preciso, secco, calcolato al millimetro. 25 novembre 2020 – ore 17. Quel ragazzo, oramai adulto, oramai stanco, sfiduciato e disilluso da tanto dolore, eppure ancora vivo, ancora vigile, ancora in controllo, è seduto alla sua postazione di lavoro, in una sala deserta di un centro diagnostico. Distrattamente alza la testa ed indirizza lo sguardo verso il televisore dell’accoglienza. E sul canale delle notizie, c’è una scritta in sovraimpressione. Perchè questa storia cominciò con una scritta in sovraimpressione, e sempre per questa assurda, circolare ed incontrollabile fatalità del caso, con una scritta in sovraimpressione doveva finire, irreversibilmente.

Come un anno prima: lacrime. Di genere esattamente opposto. Due ore di lacrime, due ore di lacrime rumorose, inconsolabili, che lo accompagnano dalla sua postazione di lavoro alla macchina, e dalla macchina alle strade del ritorno, e di qui alle scale, alla casa, all’accensione della televisione di quella cucina. E’ stato lì, in quel momento, in quella cucina, che il ragazzino e l’adulto si sono dati un ultimo appuntamento, perché in tutte le cose della vita c’è un inizio, e purtroppo una fine. Eppure in quel loro ultimo appuntamento, il loro ultimo incontro, l’ultimo abbraccio, non erano soli e non erano stati lasciati soli dal loro idolo tanto amato. Quella sera del 25 novembre, proprio come un anno esatto prima, Maradona era lì con loro, attraverso tutti i ricordi e le storie ed i racconti di questo racconto, le storie di 7 anni, di una vita, e di una famiglia, di nonni, di genitori, di fratelli, sorelle, amici, e partite, stadi, esultanze, disperazioni, risate, urla, e film, ed emozioni, emozioni incredibili, uniche ed irripetibili. Tuttte le storie con cui Maradona li aveva accomunati e legati per sempre. E, come per quell’adulto, in quella casa, in quella stanza della cucina, così in altri milioni di appartamenti, di case, di strade, di tutto il mondo. Maradona è arrivato, ha preso per mano quel fanciullo, con la sua famosa mano, la mano de Dios, e l’ha portato via, via da quell’adulto, lo ha portato con sé, perché un Fuoriclasse non è fatto per gli adulti, gli adulti sono adulterati, hanno perso il sogno, la magia, la speranza, l’illusione. Ed il più grande di tutti, il più grande artista di sempre, per continuare a recitare, a regalare gioia e magia, anche dopo la sua morte, deve poterlo fare per un pubblico speciale in un luogo speciale, e allora chi, meglio di un fanciullo, merita di assistere ad uno spettacolo puro che non morirà mai?

Così, proprio così è finita questa storia: in quella stessa cucina. Senza più quel padre, perso nella dimenticanza di una malattia irrecuperabile. E senza più quel lunare, magnifico, stordente di innocenza e di purezza fratellino minore, che lasciò questa sferica terra all’inizio dell’anno, di quest’anno peggiore di sempre. E che giace, spoglie mortali, in un’urna posizionata su quel comò. Il famoso comò di Marchesì, della fantasia di due genitori e del regalo più bello che accomunò gli altri due fratelli.

Ad un tratto, come repentina geniale invenzione calcistica, una giocata ad effetto: Maradona ha dribblato quell’adulto, ha preso per mano quel fanciullo, ed è andato in rete nell’empireo universale, negli abissi astratti dell’infinito che a noi non è dato vedere, mai più. Si è portato via il fanciullo, e per la prima volta nella sua vita, e da quel momento, quel ragazzo oramai adulto è rimasto da solo, come mai era stato.

Quindi, ogni volta che tu mi chiederai di parlare di Maradona, io probabilmente resterò muto, e se avrai occhi e sentimento per capire quel silenzio, comprenderai che tutto è scritto qui, in questa storia di una famiglia, e del bambino più coccolato di quella famiglia, e del racconto di come quel bambino, divenuto adulto, perse la sua ultima partita congedandosi per sempre dal fanciullo che fu, la sera in cui Maradona morendo rese la terra meno sferica.

Perché quell’adulto sono stato io.

 

 

 

48 STA PER ECCE QUATTOTT

Ma 48 anni stanno anche per = anni multipli
che poi sarebbero 576 mesi che stanno per = molte vissute (scritte) storie
che peraltro in termini di 17.532 giorni starebbero per = è passato tempo per me
Voglio dire: non passerò certo alla storia come inventore del rebus a data
con tutti i suoi rivoli numerici:
ma la mia storia comunque esigeva una data,
e da qui è cominciata.

Buon ’48, Vecchioleviatano!

 

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All’età
il ricordo del tempo passato
è più lento
del tempo che passa

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29 settembre 1994.

20 anni esatti fa usciva l’ultimo album di Lucio Battisti.

Casuale che fosse proprio quella data?

La data di una delle sue canzoni più famose, “29 settembre”?

Casuale che l’ultima Opera bianca avesse quell’imprinting di calen-Dario?

Casuale che l’ultima canzone di quell’album fosse una summa della filosofia di Panella?

E che fosse impossibile costruire attorno a quel testo così stratosferico ed intraducibile una musica quale fosse?

E che Battisti ci riuscì?

Ci riuscì, l’ultima sua voce ufficiale, con una sonorità che squadernò i tempi

che rimane scioccante ancora oggi

e sopra ogni cosa

sopra tutto

con un falsetto venuto da luoghi impenetrabili

del talento purissimo, umano ed oltre?

Era falsetto ed era vero al quadrato:

la chiusura circolare del percorso,

cioè la quadratura del cerchio.

Che bel 29 settembre:

una data

come cosa

ben conservata

lì, ora e a futura sorpresa:


LA VOCE DEL VISO
 
Per insignificanti movimenti
tanti e tanti il volto è tutto
e tutto sta raccolto sopra il tuo bel volto.
Lingua che sei straniera e non si sa se vuoi che io
ti distingua dalla mia o se mia lingua ti finga.
Bocca di gradazioni, intera gamma dalle predilezioni
alla maniera amara.
Bocca che mi sei cara appena appena schiusa quando armatura in te
quella fessura è un dissuadendo le svariate forme labili d'espressione
per tentativi ed approssimazione.
Ed il tuo volto è tutto
nel momento in cui passando sopra la tua immagine
della quale è troppo facile dire che in superficie
affiori l'anima passando sopra alla tua immagine invece
ci si vede intraducibile l'estraneità al lavoro.
Che il volto è tutto
ma non è del corpo al quale pare unito.
Il corpo contentando il senso della nutrizione
il viso l'ascensione, l'assorbenza dell'inappetenza
perchè un bel volto è bello se lo si può guardare
è un disimparare del mondo questo e quello.
Così ci si innamora di un viso in cui l'estraneità lavora.
Il corpo segue come un testimone casalingo e familiare
e di questa apparizione in su la cima.
Quest'opera sensibile il tuo volto che si manifesta ed è
oltre all'ordine della natura. Ecco come tutti i portenti tende a
scomparire
più cerchi di tenerlo a mente e nelle spire dei ritrovamenti portentosi.
E la voce del viso allora nemmeno ricorre ai miracoli
non un riso, un pianto non una smorfia, densa d'oracoli.
Ma dà senso quella voce a un solo volto che sotto il mio
rotola si ferma e freme alle mie mani preme
perchè lo riporti in cima, in vetta al suo sistema dei piaceri.
Secondo un canone, un precetto ed una disciplina
che inumidisce i capelli e per discrezione stende un velo di malore sulla pelle.
Ti spadroneggia allora il tuo godìo disincantato in quanto più è restìo
al racconto lenitivo, al riassunto giulivo.
E non è riso appunto e non è pianto il tuo perchè racconto è il riso
e pianto il suo riassunto.
Sul viso la sintassi non ha imperio, non ha nessun comando.

 

Io son l’autodidatta dei miei letti e dei miei scritti, sono il decisivo mio abbece-Dario

Io sono il copricapo che difende le mie idee giuste o sbagliate da incendiarie falsità, sono il rabbuiato mio aci-Dario

Io sono la mia voce consultata che diffida dell’ammasso atomizzato, son l’ininfluente mio referen-Dario

Io sono la costante assai scottante immersione dentro vasche del vapore a far ritorno, sono il ritirato mio cali-Dario

Io sono il territorio ed il confine in cui rifugio la costante reiterata appartenenza, son preciso logico mio circon-Dario

Io sono gelatina delle simmetrie raggiate, son l’astratto mio cni-Dario

Io sono intero corpo e unico dorso per serbare l’impaziente ed illusoria diffidente differenza, son l’ animalesco mio drome-Dario

Io sono il tentativo reiterato di ripetere motivi per 52 sonate, sono il ciclicante mio ebdoma-Dario

Io sono la scommessa di resistere all’agghiaccio di tempeste della vita, sono il frivolo composto mio frigi-Dario

Io sono interruttore della mano alla ricerca di una luce di speranza, son l’illuminato mio lampa-Dario

Io sono il mio cinismo breve e muto per difesa e per orgoglio, sono il secco mio lapi-Dario

Io sono inni e canti per fratelli ormai soppianti, sono il sòrrido sonante mio lau-Dario

Io sono lo stupore di un segreto inconfessato che mi innalza disperato, sono l’ammirato mi(t)o leggen-Dario

Io sono la ricchezza di una mente incondivisa e assai preziosa, sono il povero gioioso mio miliar-Dario

Io sono cittadino sconfessato ed astenuto per decenza, sono il ritirato a tratti mio pe-Dario

Io son concessionario di una fede esclusiva e personale, sono il mite e credulo mio preben-Dario

Io sono il catalogo di tutto quel che sono, son lo sterminato e vivo mio sche-Dario

Io sono ombra nascosta di una realtà più grande, sono l’umile mio secon-Dario

Io sono concussione e appartenenza ad una pietra collettiva, sono il disarmato mio socci-Dario

Io sono un passo indietro per due passi a quattro mani, sono il discretissimo mio soli-Dario

Io son l’indicazione del cammino, curve strette ardite slitte e risalite pronunziate, sono il cauto deciso mio stra-Dario

Io sono la coperta che nasconde il mondo al viso per timore e per dolcezza, sono il comodo formato mio su-Dario

Io sono via di mezzo tra l’ardore ed il gelare, sono il mio rassicurante tepi-Dario

Io sono e fui un giardino che risale dai millenni, sono il parco esteso mio viri-Dario

…e in sintesi

Io sono tutto il tempo dei miei giorni e delle ore che negli anni ho camminato solitario, sono il quotidiano mio calen-Dario

Per augurio

Oggi compio 40 anni.

Nel mio modo di non credere a nulla, credo ci siano cose simboliche, date sicuramente
(restituite, mai).
Oggi 29 settembre è di fatto necessario considerarla una di quelle,
anche se ho dissimulato e sperato lungamente che non lo fosse.
Per fortuna col tempo cambierò idea.
Ciò su cui non cambio idea – è matematico –
è la convinzione che tutto questo non valga la pena,
né per me né per nessun altro.
In questa mia certezza mi ritrovo solo, benché
la convinzione sia di caratura ontologica
e prescinda ampiamente dai miei ultimi 40 anni.
Pure, essendoci, mio malgrado e lo ripeto
(se potessi scegliere, anzi – paradosso: se avessi
potuto scegliere avrei scelto di non nascere)
gioco il gioco che il simbolo richiede
ed elenco quelle che sono
le 10 cose – vagamente argomentate – per le
quali vale la pena di vivere la vita…
Perdono, è più forte di me – riformulo
l’espressione:
le 10 cose
per cui varrebbe la pena vivere
se veramente valesse la pena vivere.

 

Musica
(dopo la parola, la più grande
Invenzione dell’umanità ma, data la sua natura,
non destinata a fare la fine della prima ed in più 100 volte più forte emotivamente)

 

Figa
(lo so… ma la si pensi in senso lato, o esteso o metonimico o sineddotico, come piacere puro personale ma condiviso, il piacere dell’amore, dell’amore sessuale, il piacere nel ritorno all’utero…di chiunque, l’atto naturale di razza e di specie comune ad ogni esistenza. O proprio come luogo fisico in cui mettere qualunque parte del proprio corpo sia possibile. O immaginabile.)

 

Pollo – cibo
(in qualunque luogo, o menù o volantino o dovechesia, quando leggo Pollo io mi emoziono e il mio stomaco pure.
È per eccellenza il Mio piatto, il mio nutrimento: se il corpo umano è composto di acqua al 70%, il mio lo è di pollo).

 

Napoli – tifo
(l’unica fede che ho, e l’immagine è: distinto centrale, allineato al centrocampo, fischio di inizio, sigaretta in bocca, le maglie azzurre in campo.
Avrei il desiderio che le mie ceneri fossero sparse lassù)

 

Pioggia – cielo grigio scuro
(“sciacqua le memorie dal marciapiede della vita”. Quando il cielo è nero e la pioggia si scaraventa sulla terra senza ritegno, io in quel momento mi sento felice.)

 

Tramonto
(non si può non guardarlo, anche o soprattutto se nascosto dietro i grattacieli del CD mentre torno a casa dopo l’ennesima battaglia.)

 

Cinema
(anche l’occhio vuole la sua parte: spesso a mandorla. Potrei elencare 700 visioni negli ultimi 7 anni, ma non posso, passo alla visione successiva)

 

Leggere
(per dirne due a caso: Kafka e Bukowski. “Un uccello andò a cercare una gabbia”)

 

Praga
(resta un mistero, come è giusto che sia – data la natura e l’essenza di questa città, ma io ho sempre amato quel luogo – e tutto di quel luogo che per me rappresenta il riflesso della parte oscura, ombrosa, segreta, meravigliosa ed indicibile dell’anima – ma anche la sintesi del ricordo, della malinconia e della gioia confuse e spiazzate insieme.)

 

Ridere
(anche in senso esteso, come stare bene in compagnia – e magari non propriamente sobri – con qualcuno: il ridere è la condivisione precisa dello stato d’animo più infantile e spensierato, più ancora del fare l’amore, è il piacere mentale senza condizionamenti, la pazziella intonata in un mondo sconclusionato)

 

Oggi questo mi è passato per la testa, fra un giorno, un mese o dieci anni no so.
Ovviamente, restiamo intesi che la vita è orrenda, noiosa, insensata.

 

Sensazioni “forti”, VecchioLeviatano!

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