Category: Pantani


20 ANNI

Nulla è cambiato e niente è passato dalle parole che scrissi. Solamente 10 anni: e cosa sono 10 anni di fronte all’eternità?

“Perché io ti amo: perché tu sei Marco Pantani”.

 

Oggi compio 50 anni e questo post è completamente plagiato ordunque ispirato da quello scritto esattamente 10 anni fa a quest’ora (più o meno: ma cosa è un più o meno in faccia a un mezzo secolo? A pensarci trasecolo). Ancora infatti pur oramai disancorato avviato in alto ed altro mare, nel mio rinnovato ribadito sbiadito modo di non credere a nulla, credo ci siano cose simboliche, date sicuramente (e/o restituite: male, più che mai).
Oggi 29 settembre è di fatto necessario considerarla una di quelle, perché transeat per i giochi di parole 40 = forty = forti (sensazioni), o i quadratini deliranti di un anno fa (che però ho opportunamente aggiornato), la ricerca degli scontrini dei non dico 49 precedenti ma quasi, ma qua spacchiamo fifty fifty il secolo breve, precisi e secchi come solo l’orrore di guardare in faccia l’errore (e viceversa) prima di ridere di sgusto potrebbe fare. Non so se il tempo mi darà tempo di cambiare idea, e francamente non mi interessa quasi più,
all’età
(di cui ognuno è figlio. e al tempo stesso padre e madre. e anche sorella e fratello. e così, come in una messa, messi tutti).

E sia.

Ciò su cui non cambio idea – è matematico e pertanto lo ricopio identico –
è la convinzione che tutto questo non valga la pena,
né per me né per nessun altro.
In questa mia certezza mi ritrovo solo (non più tanto, invero. e non so se sia un bene o un male. intendo per colui il quale), benché la convinzione sia di caratura ontologica (non strettamente personale, anche perché, specie negli ultimi anni, di strada se n’è fatta assai)

Pure, essendoci mio malgrado (forse…!) e – lo ripeto: se potessi scegliere, anzi – paradosso – : se avessi potuto scegliere, avrei scelto di non nascere –
gioco il gioco che il simbolo richiede
ed elenco quelle che sono (qui il plagio si incrina un po’)
le cose (generico: 10 non ce le trovo) per le
quali varrebbe la pena vivere
se veramente valesse la pena vivere.

Metto ciò che resta:

la musica sì (la canzone è DATA)

il pollo sì (la foto è DARIA)

il bere (che stava inopinatamente nel commento e non nel post orginale) sì (la foto è TRINITATA)

il tramonto – ma giusto per come lo descrissi (e infatti non metto la foto, lascio l’immaginario)

e Praga in senso scaramantico sperando di rivederla, anche se i miei schemi numerici sono saltati per aria, gli incastri i desideri e le magie: tutto polverizzato.

il restante è di contorno (fatti salvi i miei capisaldi letterari che non elencherò, perché li so).

Lo scandalo è la sparizione del Napoli. Quando scrissi quel post, se fossero venuti da me queruli e questuanti tutti i me di un futuro cominciato da qualche anno (due o tre) a scandalizzarsi che 10 anni dopo non ci sarebbe stato, li avrei rispediti al mittente, argomentandone con un cenno della mano inequivocabile l’impossibilità. Inequivocabile tanto il cenno quanto l’impossibilità. Che poi come si vede non esiste, al limite l’improbabilità. Che poi come si vede non era potenzialmente tale, nella tremenda fattispecie.

Le altre rimasuglie sono spunti. Le aggiunte o le varianti, transeunti. Ma attenzione: io non dimentico. Ho così cari i miei sterminati ricordi che nessuno è riuscito a sterminarmeli, di persone, amori, momenti, situazioni, illusioni, circostanze fantastiche e straordinarie. Ma qui si sta filosofeggiando su un apriori e, ad esso connesso, su una ipotetica. Quindi non sporco nemmeno di striscio le mie memorie, che pure non torneranno più.  
E ci credo
.

Abbrevio così: sto viaggiando al tramonto (verso la costiera? verso casa?), mi attende un negroni, un pollo ed una birra, e sto ascoltando la radio (anagramma di dario) in macchina.

Le sensazioni forti, quelle intense e brevissime, di cui lì scrivevo, e che oggi vivo a tratti assai tenui, hanno sostituito le emozioni di un tempo. Ammesso che non fossero lo stesso fenomeno, racchiuse complete in uno stesso complesso e compresso noumeno.

Mi piace ancora scrivere, ma non so se mi ritroverai ancora qui tra 10 anni.
Ascolta però: sai come pronuncia un mezzo bleso al secolo (mezzo) zeppolaro le parole seguenti?

RE-fifti ed IN-fifti.
IN-fifty e RE-fifti.

REfifti ed INfifti.
L’autoaugurale mia genialità sta tutta qua.

Buon mezzosecolo mezzasega VecchioleviadORO!

Marco Pantani

 

 

Caro Marco,

avrei voluto scriverti tutto quello che ho provato in questa settimana, ed in ognuna di queste sere quando – solo io lo so – tornato a casa dal lavoro, ho cercato inutilmente di buttare giù parole, e ciò che schiacciava la tastiera non erano le dita tremanti delle mie mani, ma un enorme strano non inconsueto fiume liquido oculare, null’altro d’altro. E pure questa mattina, nella stessa posizione e con la stessa luce sullo stesso letto di 10 anni fa, e pure adesso, ora che la casa è invasa da 3 cose: la luce di un sole insolito d’inverno che batte sul pavimento, vaghi rumori della strada, e la voce della televisione che si è scatenata nell’anniversario del decennale – non ti dico il web – a riproporre quell’altro decennale: 1994-2004.

Nella mia mente, che tu sai non mente mai, ho scritto un libro per ognuno dei giorni in cui mi hai donato, senza nulla in cambio, delle emozioni e delle gioie che surclassano, per lacrime, quelle versate in nome della rabbia, del dolore e della morte. Ho riletto, sempre sullo stesso letto, il mio diario del 14 febbraio del 2004, e ti assicuro che è stato un calvario quasi come quello del valico di Chiunzi – tu sai.

Ho ripensato anche alla mia poesia, che mi dettasti due anni prima dell’ultimo traguardo, un epitaffio proveniente da universi di insondabile silenzio, che partecipò per interposta persona ai tuoi funerali.

Sapessi, caro mio fratello, quasi coetaneo, il mare di montagne che mi è sceso tra i piedi ad ogni passo, ogni istante un’istantanea, ogni respiro uno scatto della memoria, mentre intorno ognuno si sente in dovere di riproporre una sua verità, come se le emozioni avessero una voce, una retorica buona per le sentenze dei vivi.

Così, mentre ripensavo a tutto ciò, e non avevo parole, non avevo parole, e mi maceravo in quella particolare sofferenza umana dell’inespresso, di chi vive sulla propria pelle lo scandalo di sentimenti troppo intensi da riuscire a gestire, mi è venuta in mente una canzone, che parla di anni di battaglie per la strada – un titolo perfetto, non credi?

E’ una canzone che comincia così:

“Chased you out of this world, didn’t mean to stop
I turned around and suddenly you were gone
Like some bird from paradise, the fire and ice
We turned around and suddenly you were gone, gone, gone
And now summer burns a hole inside and years are golden once again
My thoughts return to you my dear young friend
Oh come this way
Will you look down this way
I go down on the street
Where the wild wind’s blowing
Here comes a hurricane”

E poi:

“I say oh come down this way
Will you look down this way
I need you tonight
I need you around me”.

Ecco, Marco: non riuscirei mai a dare conto ed idea – con miliardi di miei sproloqui – delle emozioni con cui hai segnato, realmente, anni ed anni della mia vita.

My thoughts return to you my dear young friend – più di questo non osa la parola: proprio non può.

E’ stata una fortuna ed un privilegio averti avuto con me lungo la strada, le discese ardite e le risalite, prima che scappassi via in fuga come sempre – Like some bird from paradise.

E ciò che mi distrugge è soprattutto il suddenly: come un tuo scatto, pur annunziato dall’aria, ma senza prova di appello: ci siamo voltati e non c’eri più.

E’ stata una gioia interminabile l’averti potuto conoscere di persona.

Per questo, spesso: i need you around me; e stasera, stasera sopra tutte, i need you tonight.

E’ stata una meraviglia l’averti potuto abbracciare, l’aver potuto sorridere insieme e l’aver potuto condividere uno spazio ed un tempo fissato per sempre dentro la stessa cornice, quella che vedi lassù: anzi di più: è stata una Magìa.

Ma ciò che di più prezioso mi hai dato, è stata una rivelazione che nessuno sa, solo io e te. Quando a dicembre dell’anno delle due maglie, venuto da te al tavolo, ci scambiammo le mani, ci guardammo negli occhi e ci dicemmo quel che ci dicemmo.

(Marco, adesso se ci penso sto malissimo).

Caro Marco,
come tutte le persone che fanno parte della mia vita, tu non morirai mai.
Ecco perché non aveva preciso senso scriverti proprio oggi, nel decimo anniversario di “torrida tristezza” come questo.
Ma si trattava solo di andare più forte, staccarsi il mondo di dosso, far fare un giro più veloce al sangue tra la gola e le mani, per abbreviare quella famosa agonìa, oggi tutta mia e solo mia – indivisibile ed incondivisibile – su cui hai reso più poesia tu di montagne di stupide ed inutili parole.

Perché io ti amo: perché tu sei Marco Pantani.

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