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Mi sento finalmente sgravato da un peso esistenziale, o almeno da un cruccio morale che per me era tale. L’idea che potessi illudermi (o riuscire ad illudermi) di scrivere di emozioni, sottolineando i concetti di idea ed illusione, perché so bene che la realtà procede in senso opposto: l’ho messo volutamente a presentazione e senso di questo mio spazio pubblico, che nell’incipit recita: “Se è vero che le emozioni prescindono dal linguaggio (e prova ne sia che anche gli altri esseri viventi – animali in testa, hanno sensazioni inesprimibili perché prive di linguaggio, ma le hanno)” – ed in cui, appunto parlando di illusione, aggiungevo : “Come – cioè – esponenti lontani e successori secolari delle stirpi geniali che nei millenni lo generarono e codificarono (il linguaggio umano), si dovrebbe rivendicare il diritto di appellarsi ad una illusione. Vale a dire che le sensazioni, le emozioni pure più mie ed irripetibili, che non posseggono un linguaggio esterno e nemmeno uno interno, possano esplodere la gabbia della lingua e possano procedere in una dimensione commotiva opposta a quella strumentalmente segnata dalle cifre della lingua” – per concludere in seguente guisa – “allora io mi illudo di inseguire quel sentiero lastricato di candore, dove le mie parole diventino lo strumento malleabile, adattabile e flessibile di un gioco degli specchi, dove i miei suoni, i miei colori, le mie immagini più profondamente “dentro”, ottengano l’omaggio di una fotografia su bianco carta, senza che il codice scritto prenda il sopravvento, ma lasciando che sia l’inarticolato mare di dolore e commozione interiore ad esprimersi come meglio crede, con gli strumenti che ritiene più adatti al frastuono di quella stessa Illusione”.

Bene. Mi sento sgravato dal peso, da quel peso, da ogni possibile peso: quell’aspirazione, come ho sempre saputo, è impossibile. Era il preciso equivalente di un’ultima tentazione di Cristo, di un ultimo scherzo di Joker, di un ultimo colpo di Mano di D10S. Mi sembra tenero appagante significativo e simbolico che ciò abbia trovato conferma grazie al realizzarsi del mio ultimo desiDario adulto, che mi ha concesso il lusso di veder combaciare fenomeno e noumeno, entrandovi dentro come il Capitano David quando attraversa la dimensione spaziotemporale in 2001.

In fondo, era solo una curiosità assai filosofica e metafisica. It’s that all.

Detto ciò – e posto che di post probabilmente ne metterò ancora, e quando proprio sarà che “non ho parole”, mi limiterò a scrivere: IBIDEM (che mi è sempre piaciuto, e tornato sempre utile), mi è venuto in mente un aforisma distillatissimo Vecchioleviatano, che non so se c’entri ma fa tanto e tanto brodo, direi sbrodolone: “mi ero illuso di non avere più paure, ma era solo la paura di non avere più illusioni”.

E poi – a futura memoria – per quel molto e troppo inespugnabile inoppugnabile ed inesorabile segreto che ognuno di noi si porta dentro, assurdamente incomunicabile (che significa ipso facto che la cosa che ammiro di più è quando una persona si suicida senza lasciare scritto nulla) posso con cognizione di causa dire che davvero adesso io

posso anche morire.

Non perché intenda farlo, ma perché ho attraversato il fenomeno e sono giunto al noumeno di quel modo di dire che per me, dalla serata abissale del 04 maggio 2023, tale più non è.

Ora, in fine
Posso
Anche
Morire.

Seppellitemi così, qui.


sì, lo so lo so: tu ora mi dirai che sono un cialtrone, un buffone, un chiacchierone.

Uno che – è legge – è stato annoverato tra i più grandi tifosi della storia azzurra, abbonato al calcio Napoli per 12 campionati consecutivi, dalla stagione 2002-2003 – primo acquisto col primo stipendio da regolare dipendente assunto a luglio 2002 – quint’ultimo posto in serie B e retrocessione evitata per un rigore regalato dall’arbitro Nucini come omaggio alla storia sportiva della città ed ai 70.000 disperati accorsi contro la Triestina, alla stagione 2013-2014 (con ultimo match contro il Verona a visione negata causa partita a porte chiuse, costo del match regolarmente scontato (nel senso di condanna e non di sconto) perché compreso nel suddetto abbonamento: i cosiddetti rischi del mestiere). Mi sono fatto 3 campionati di B, di cui il secondo (stagione 2003-2004) con 5 partite a porte chiuse a Campobasso (pagando, cioè, per immaginare via radio 5 puntate di uno spettacolo cimiteriale), 2 di serie C (di cui il primo, stagione 2004-2005, con annesso play-off, regolarmente perso) e 7 di serie A. Fuor d’abbonamento, ho assistito in epoche preMaradoniane ad un paio di salvezze di rigore timbrate Ferrario, ed in epoca divina alle vittorie con Juve e Milan della primavera ’87, quando Diego con tre palleggi consecutivi segnò uno dei tanti gol del secolo. Ero allo stadio il 10 maggio, e non aggiungo altro. Via via, nel quinquennio preabbonamento, mi sono fatto le ossa tra A e B, con due retrocessioni sul campo, una in particolare nel giorno in cui la Roma venne al Sanpaolo (ai tempi si chiamava ancora così) che doveva prendersi il tricolore, noi dovevamo salvarci, finì chiaramente drammaticamente pari, e la storia di quel match (10 giugno 2001) è finita su youtube perché il sottoscritto entrò allo stadio con una telecamera antidiluviana e riprese tutto.  Oltre ciò, ho assistito ad una monumentale sequenza di partite di ogni coppa possibile, coppa campioni (tra cui la prima nella storia del Napoli, 30 settembre 1987), champions league, coppa uefa (tra cui ottavi, quarti, semifinale e finale di quella vinta nel 1989), europa league, coppa italia (manifestazione a cui sono particolarmente legato perché fu lei che mi vide per la prima volta allo stadio, con Zio Salvatore, il 30 agosto del 1981: Napoli Cremonese 1-0 rete di Pellegrini in rovesciata), supercoppe italiane (tra cui quella vinta il 1° settembre 1990 contro la ridicola juve di maifredi, e – udite udite – una finale di supercoppa di serie C persa contro lo Spezia, partita di cui ad occhio mi ricordo solo io e qualche novantenne ligure che ancora non crede possibile poter affermare – senza tema di smentita: “ho sconfitto il Napoli in finale”), play off, play out, insomma la qualunque, e sempre regolarmente andando allo stadio 4 ore prima, sempre allo stesso posto con lo stesso giornale e stesso (variabile) libro di Bukowski, con la stessa bottiglia di acqua mimetizzata nella sciarpa tenuta in mano per giuocare d’astuzia i controlli all’ingresso stile Fantozzi, con i due borghetti regolarmente inseriti nel lato posteriore dei calzini, con la solita regolarità nell’accensione delle sigarette precisamente ad inizio primo tempo, inizio secondo tempo, e circa 25° (o 27°, a seconda del risultato) della ripresa nonché a due minuti dal 90° per allungarmi nel presumibile recupero di 4-5 minuti, con una costanza ed una fede incrollabile sotto ogni punto di vista e da qualunque latitudine la si osservi, e per questo apprezzata a livelli collettivi ed universali, al punto che più volte ho avuto il sospetto che l’arbitro, prima del fischio di inizio, verificasse che io fossi presente per salvaguardare la regolarità del match e dell’intiero campionato. Tutto ciò è vero, è legge (e leggenDario).

Come è vero, però, che dopo il vergognoso furto legalizzato ai miei danni proprio esattamente 5 anni fa, il 29 aprile del 2018, il proverbiale ed ancor oggi insanguinato campionato rubato a Milano e quindi “perso in albergo a Firenze”, e poi dopo quelle manifestazioni plastificate a stadi vuoti circondati da alieni in mascherine per tutto il fottuto anno bisesto, e quindi – a conclusione del suddetto anno peggiore della mia esistenza – dopo la morte del D10S, inesorabilmente anche dentro di me qualcosa, molto, quasi tutto si spense, e – con quello che resta ad oggi il mio epitaffio assoluto – chiusi per sempre con il tifo per il Napoli peraltro sancendo, o meglio ufficializzando la cosa nel giorno del mio mezzo secolo esatto di vita – laddove, nel confronto decennale col post del quarantennio – a vedere cosa restasse e cosa no dei motivi per cui varrebbe la pena vivere la vita se valesse la pena viverla davvero, così, testuale – in merito al tifo azzurro – scrivevo: “Lo scandalo è la sparizione del Napoli. Quando scrissi quel post, se fossero venuti da me queruli e questuanti tutti i me di un futuro cominciato da qualche anno (due o tre) a scandalizzarsi che 10 anni dopo non ci sarebbe stato, li avrei rispediti al mittente, argomentandone con un cenno della mano inequivocabile l’impossibilità. Inequivocabile tanto il cenno quanto l’impossibilità. Che poi come si vede non esiste, al limite l’improbabilità. Che poi come si vede non era potenzialmente tale, nella tremenda fattispecie”.

Vero, tutto vero. Roba di manco un anno fa. Peraltro corredata, nell’ultimo triennio, da sprezzanti sfottò nei riguardi di coloro (colleghi, amici, nipoti vari) che ancora (ancora ai miei occhi disillusi e sarcastici) professavano la loro fede imperterriti, in questi anni postsarriani ancelottiani, gattusiani, praticamente ironicamente genialmente definibili malthusiani (perché sono pur sempre un raffinato filosofo ed intellettuale, pur se per soli 5 secondi al giorno, quando va bene).

Poi però, di lì a poco compiuto il mezzo secolo e tutta sta roba descritta, in un giorno di novembre 2022, mentre di soppiatto di nascosto in un antro semibuio del luogo in cui lavoro, durante una pausa pranzo di tre secondi (visto che non pranzo più dal 2009) mi scimunivo con il mio teorema del quadrangolo magico degli opposti numerici, una mia collega storica e di me più grande mi vide (disperato, perché stavo dando i numeri a me stesso, irridendomi e impazzendo quasi peggio di John Nash) e mi si accostò con pudore per sussurrare nell’aere una domanda che da quel momento mi esplose dentro come un rinnovato big bang. Questo fu il suo semplice dirmi: “Dario, ma tu non tifi più per il Napoli”? Ecco, quel tragico  semplice interrogativo, banale, fintamente distratto, posto in modo accorato e rammaricato da una persona che per secoli aveva vissuto le vicende del calcio Napoli anche e soprattutto attraverso le mie ventennali rendicontazioni, rimpiantizioni, felicitazioni, saliscendazioni costanti e continue sul loculo di lavoro, mi pose faccia a faccia con l’abisso di 50 anni di passione indicibile, estrema, apodittica, che per decenni – ci sono dettagliate testimonianze a supporto – avevo esemplificato in una frase diventata lo slogan della mia vita adulta: “prima di morire vorrei mi accadesse una sola cosa (p.s. nota il “mi”: come fosse un fatto personale e non generale. Perché concerneva il voler vedere non tanto la cosa in sé, il noumeno; ma il come avrei visto me mentre vedevo la cosa, il fenomeno insomma). – “non ori, non successi, non presidenze, non donne a fottìo, ma solo una cazzo di stupida inutile rivisitazione di un’emozione: vedere il Napoli vincere lo scudetto ancora una volta, una sola ultima volta”.

Ecco: da quella data di novembre 2022, è stato un crescendo di pensieri e di autoanalisi calcistiche ed esistenziali che per carità di patria, e per demenza senile, evito di riportare. Con nel mezzo un mondiale dicembrino a tifare argentino e ritrovarmi a lacrimare di gioia quando il 10 li ha MESSI tutti a tacere alzando la coppa… rimembranze… evenienze…coincidenze… E poi, dalla farsa della prima di gennaio, quando i tronfi giornali del nord parlavano di campionato riaperto, è stato tutto un crescendo di sopite pulsioni ad ogni record frantumato, passando per la pagliacciata dei punti restituiti ai ladri bianconeri al passo falso continuato di questo mese oramai concluso, coppa campioni compresa. Ma poi, a chiusura del cerchio, dopo lo stesso gol allo stesso minuto nella stessa porta con lo stesso cross dalla stessa fascia della stessa praticamente data di 5 anni prima, cioè da scorsa domenica sera … si è insinuato LUI.

LUI è quel ragazzo di 17 anni che a conclusione di quell’epitaffio del novembre 2020 scrisse: “Perché quell’adulto sono stato io”. E, in questo incredibile ribaltamento di ruoli, prospettive e sensazioni, cose che come puoi non dico spiegare ma semplicemente vagamente provare a descrivere ad un qualunque altro essere umano se neanche tu stesso riesci a padroneggiarle, quelle emozioni (inerpicandoti sulla tremenda distinzione tra codeste ultime e le sensazioni dell’istante, ma ferme e quasi d’acciaio incastonate per sempre nello stomaco), quello scendere in questi giorni all’alba e guidare verso la fatica e contare la bandiera e lo striscione in più, osservando il cielo senza una cazzo di nube una cazza qualunque da nessuna parte, avviluppato in un azzurro che lui, quello del cielo, era lui che faceva da pendant a sciarpe, stendardi e quale che fosse oggetto, e la musica in macchina, e le lacrime. Bum! Vedi, mi sono avvitato, ho perso il filo ed il fiato, solo a rievocare mi sperdo nei brividi del fato.

Dicevo: LUI mi ha parlato. un monologo tracimante a tratti straziante emotivamente irripetibile.

Attaccando così:

te l’ho già detto che quando il Napoli ha vinto l’ultimo scudetto ero ancora un liceale minorenne ed oggi, stravolto in una giravolta lunga un terzo di secolo dentro la quale ci è passata ogni cosa, il presente il futuro ed il passato, son diventato un ultracinquantenne?

te l’ho già detto che quando il Napoli ha vinto l’ultimo scudetto mio padre era più piccolo del me di adesso e che adesso, ma proprio adesso ora, oggi, il 29 aprile del 1994, quando l’età di mio padre si sovrapponeva perfettamente a quella di me cinquantenne e mezzo ora, lo accompagnai a Civitavecchia ad operarsi di ernia e la sera, appena rientrati a casa, si ruppe il braccetto della Tipo che avevo guidato per 600 chilometri a 120 all’ora sull’autostrada?

te l’ho già detto che quando il Napoli ha vinto l’ultimo scudetto, ma proprio nell’esatto momento, cioè proprio esattamente oggi, il 29 aprile del 1990, esattamente alle 17.45, erano due anni esatti dal quel 29 aprile del 1988 in cui, alla stessa ora e minuto, mia madre mi disse che era malata e che non aveva tanto paura di morire, quanto di soffrire?

te l’ho già detto che quando il Napoli ha vinto l’ultimo scudetto Senna stava per vincere il mondiale di Formula 1 in faccia a Prost sulla Ferrari, Ayrton odiato da tutta Italia e che poi, proprio due giorni dopo quel 29 aprile 1994 suddetto, quello di me e papà con la mia età di oggi di ritorno da Civitavecchia, Senna sarebbe morto in Italia per diventare leggenda anche oltre la sua stratosferica esistenza terrena?

te l’ho già detto che quando il Napoli ha vinto l’ultimo scudetto non esisteva il cellulare e dovevi usare il gettone per telefonare da strada, e girare la rotellina col dito per chiamare da casa ricordandoti il prefisso se chiamavi fuori provincia?

te l’ho già detto che quando il Napoli ha vinto l’ultimo scudetto il computer era uno scatolone di 50 chili a 64 kb che serviva per giocare a mario bros ed arcade o a golf sul soppalco in quattro di noi a fare i fumenti e che internet era assai lì da venire e che questa cosa che sto scrivendo adesso esposta alla mercé del mondo a qualunque latitudine non sarebbe mai potuta uscire dalle pagine di un diario di casa scritto con la penna bic che se la mettevi sottosopra scoppiava e tracimava l’inchiostro e dovevi buttare tutto nel cesso?

te l’ho già detto che quando il Napoli ha vinto l’ultimo scudetto, parlando di diari e di scrittura, non avevi cominciato ancora il racconto della tua vita che va avanti da 24 volumi e 11.154 giorni (compreso oggi) e che le storie che ti piaceva scrivere le vergavi sui diari di scuola o sulle agende che mamma e papà ti regalavano a fine anno e infatti fu proprio su una di queste agende che descrivesti con una perfezione esaltante e coinvolgente – tanto per tornare al tifo azzurro – l’altro scudetto, cioè il primo, resoconto che meritoriamente è finito anch’esso quissù?

te l’ho già detto che quando il Napoli ha vinto l’ultimo scudetto le foto si scattavano su pellicola e se sbagliavi eri fregato e te ne accorgevi solamente dopo averle sviluppate (dal fotografo intrighesso) ma, e che, se si apriva per errore la macchinetta il rullino era bruciato ed ogni fotogramma veniva cancellato?

te l’ho già detto che quando il Napoli ha vinto l’ultimo scudetto la musica si comprava in un negozio e che dovevi prendere la metropolitana per spostarti a chiaia o il motorino per arrivare sul vomero (pedalando in salita perché il boxer non ce la faceva, specie se eravamo in due) e dopo aver scartabellato la confezione di plastica trasparente della cassetta (che se ti andava di culo costava 16.000 lire) la si ascoltava nel mangianastri della radio, una canzone alla volta in rigoroso ordine sequenziale, e che se poi quel fottuto mangianastri non funzionava più in rewind e volevi riascoltarla dovevi girarla ed andare avanti oppure farlo manualmente infizzando la penna nel buco della cassetta e vorticarla con un frenetico gioco di dita?

te l’ho già detto che quando il Napoli ha vinto l’ultimo scudetto esistevano solo 16 tasti sul telecomando perché i canali nazionali erano meno di 10 e se volevi vedere un film o ti piazzavi davanti allo schermo a quell’ora precisa disdicendo tutti i tuoi impegni (che non avevi perché dove cazzo volevi andare, dopo la scuola ed i compiti, la sera a 17 anni, e poi mica tenevi l’oggettaccio che ogni 3 secondi trilla squilla e ti appa l’intera mappatura dei testicoli) o dovevi sperare che il videoregistratore (se ce l’avevi) era stato ben programmato ed il nastro della cassetta non si fosse incastrato o smagnetizzato perché stavi sovrapponendo il tutto al filmaccio porno che per un estremo miracolo avevano dato la notte del sabato precedente su qualche canalaccio locale ed era l’unico modo, ai tempi, per vedere una pucchiacca o un capezzolo, a parte i giornalacci che compravi di soppiatto in edicole malfamate facendo la conta con gli amici per stabilire chi dovesse sottoporsi al supplizio di andare dall’edicolante a farsi guardare storto manco fossi un irrimediabile pervertito sessuale, che poi quello non se ne fotteva un cazzo di te e delle seghe che dovevi farti, gli bastava che cacciassi i soldi e ti levassi rapido dai coglioni con la tua aria da pudico imbranato?

te l’ho già detto che quando il Napoli ha vinto l’ultimo scudetto Marco Pantani non aveva ancora vinto il giro d’ Italia – intendo neanche quello dei dilettanti?

te l’ho già detto che quando il Napoli ha vinto l’ultimo scudetto Ivan Lendl se la giocava ancora a Wimbledon contro Edberg e Becker?

te l’ho già detto che quando il Napoli ha vinto l’ultimo scudetto Alberto Tomba era dato per fallito dopo due anni di merda seguiti agli ori alle Olimpiadi di Calgary?

te l’ho già detto che quando il Napoli ha vinto l’ultimo scudetto “non ho una lira” era un’espressione assolutamente sensata (per quanto spesso non veritiera) e che con l’equivalente dei 100 robi di adesso ti facevi una vacanza estiva intera girando in interrail?

te l’ho già detto che quando il Napoli ha vinto l’ultimo scudetto la Phonola Caserta non aveva ancora vinto il campionato malgrado Oscar Esposito Gentile e Dell’Agnello, e che poi sarebbe arrivato Shackleford che io chiamavo Sciaccalaccabù per citare un divertissement di Prince in Housequake?

te l’ho già detto che quando il Napoli ha vinto l’ultimo scudetto qui a Napoli aspettavamo con ansia il nuovo film di Troisi, il nuovo libro di De Crescenzo, il nuovo disco di Pino Daniele, la nuova intervista di Gianni Minà, e che oggi sono tutti regolarmente amaramente di là?

te l’ho già detto che quando il Napoli ha vinto l’ultimo scudetto non avevo ancora percorso nemmanco uno dei circa 500.000 ad oggi chilometri alla guida di una vettura da pendolare di sventura, e non avevo mai volato fino al punto di decidere terrorizzato di non volere volare più, sancendo poeticamente la presa di posizione (da fermo, a terra) in uno dei miei aforismi più circostanziati veritieri e lapidari “volando sono atterrito, commosso e grato sono atterrato“?

te l’ho già detto che quando il Napoli ha vinto l’ultimo scudetto, di là dall’adriatico esisteva una nazione chiamata Jugoslavia dove ci persi un ciuccio in un’estate di millenni fa, e di là dal mondo uno spauracchio chiamata Urss che poi il vero spauracchio era quell’altro?

te l’ho già detto che quando il Napoli ha vinto l’ultimo scudetto Dalla, Battiato, Battisti, Freddie Mercury, David Bowie e il Principe di Minneapolis erano tutti ancora lì a farti sognare mentre registravano in studio il loro nuovo album?

te l’ho già detto che quando il Napoli ha vinto l’ultimo scudetto Stanley Kubrick, Woody Allen, Martin Scorsese, e Gabriele Salvatores, o te li vedevi al cinema o dovevi aspettare anni, se e quando li passavano in tv, altro che pay, youtube, streaming e tutte le altre misteriose eternazioni visuali e visionarie della rete che ci imprigiona tutti?

te l’ho già detto che quando il Napoli ha vinto l’ultimo scudetto vivevo ancora insieme a sorella e fratello maggiore mentre il piccolino era di stanza a Calambrone, ed oggi il maggiore e la maggiore son 4 volte genitori ed il piccolino è tornato con me alla casa del padre e qui dorme in un’urna sopra il comodino?

te l’ho già detto che quando il Napoli ha vinto l’ultimo scudetto la domenica mangiavo a casa della nonna prima dell’inizio di tutte le partite in contemporanea alla radio alle 15, perché in tv non le trasmettevano manco per il cazzo e poi dovevi aspettare 90° minuto per vedere a stento i gol e provare a capire se avevi meritato, demeritato, giocato bene, o male, o realmente giocato e che non fosse tutta fantasia ed invenzione della tivù, come peraltro spesso era ed è ancora?

te l’ho già detto che quando il Napoli ha vinto l’ultimo scudetto questo enorme moloch che si chiama Vecchioleviatano, e che rappresenta tutto ciò che mi sarebbe sempre piaciuto essere e che – come tale – esiste solo nel mondo virtuale (mondo che all’epoca non esisteva neanche in modo virtuale) e non in quello reale e che però e perciò, nel paradossale mondo reale dell’illusione esistenziale che mi appartiene, è la cosa realmente più bella che ho, questo Vecchioleviatano erano solamente due parole slegate, vecchio come anziano e Leviatano come Hobbes, e non avrebbero mai pensato di unirsi insieme perché nessuno aveva immaginato di poterlo fare?

te l’ho già detto che quando il Napoli ha vinto l’ultimo scudetto Maradona era il mio Capitano?

te l’ho già detto che quando il Napoli ha vinto l’ultimo scudetto non sapevo cosa fosse l’amore e ancora oggi, malgrado ne abbia ricevuto a profusione, più che non saperlo non l’ho ancora precisamente compreso o forse o meglio non ho ancora ben compreso come si possa ricambiare questo grato mistero in modo tanto vero e spontaneo quanto sistematicamente gratuito.

Ecco: LUI parlava, parlava, non la smetteva più. Come anticipato, la sensibile demenza senile mi trattiene dal ricordare tutto. Eppure, una cosa del genere, una persona del genere, una storia del genere: come potevo esimermi dal tenerla nascosta? Proprio oggi, un 29 aprile: una data che come un misterioso incantesimo torna e ritorna come i ritorni di Battistiana memoria? Voglio dire – e chiudo, ma siamo in due a parlare adesso: alla fine, se non si fosse capito, sono tutti morti. Tutte queste storie, questi miti, questi personaggi, queste leggende, queste esistenze, queste anime del mondo di quando il Napoli ha vinto l’ultimo scudetto: sono tutti morti. Ma qui, ora, oggi, 29 aprile 2023, te lo scrivo e te lo detto: il Napoli ha veramente vinto, un terzo di secolo dopo, un terzo scudetto.

Ora puoi commuoverti e piangere di gioia: in fondo, era il tuo unico desiDario.

sono serate un po’ così: di quelle che hai aspettato per 2/3 della tua vita e che però poi a un certo punto non te ne fregava più niente e che però poi, a sorpresa, passato il mezzo secolo di esistenza, ti ritrovi a mezza via tra cuore e fantasia e quando scopri che sono la tua momentanea realtà vera, ti emozionano come non avresti più creduto possibile e ti precipitano in uno stato di euforica adulta adolescenza e pensi solo ad esser grato al fato per averlo riprovato prima di.

Oggi, data palindroma: 12022021. L’altra volta che ciò accadde (negando l’esistenza del 2020 per motivi che non voglio neanche) risale al 21022012. Sono trascorsi esattamente + 9 anni – 9 giorni. Per un totale di 3279 giorni. Che poi, se sommiamo 3+2+7+9, arriviamo al 21, l’anno attuale, ed alle 2 cifre basiche di queste palindromiche calendaristiche, l’1 ed il 2. Ma la domanda è: voi dove eravate il 21-02-2012? io, per me, lo so. E non solo a causa del mio personalissimo perpetuo calen-diario a consultazione. Ma perché c’è addirittura il riflesso filmato. La realtà romanzesca del Numero è Tutto.

tu mi chiedi di Maradona, ma io non ti racconterò di Maradona: della sua vita hanno parlato in tanti, in troppi, in tutti. Tu mi chiedi ancora di Maradona, ed io allora ti parlerò della vita di un bambino, il terzo di 4 figli di una famiglia di Napoli, e ti racconterò 7 anni di storie intrecciate, semplici complessi incancellabili fotogrammi della memoria, e lascerò che sia tu con la tua sensibilità, con l’amore di queste parole, a capire la vera storia di Maradona, attraverso la storia di quella famiglia.

Questo racconto comincia nella primavera del 1984, quando questo bambino di quasi 12 anni sognava di vedere giocare nel Napoli il Grande Campione, e ritagliava foto e notizie dai giornali sportivi, e ci riempiva i suoi quaderni a quadretti, ed ogni giorno il grande Campione si avvicinava al Napoli, ma il giorno dopo se ne allontanava, e lui tagliava e ritagliava quel saliscendi di titoli di giornale, e modificava i suoi piccoli commenti accanto a quei ritagli incollati nel quadernetto.

E poi un sabato, il 30 giugno dell’84, alle 8 della sera, quando il trasferimento del secolo sembrava oramai sfumato, e quel bambino era sospeso sulla scaletta che conduce al soppalco per andare a prendere i costumini e le scarpette da mare (che il giorno dopo si andava con la famiglia a Seiano) il telegiornale dalla televisione in bianco e nero alle sue spalle annunciò che la trattativa per Maradona a Napoli si era riaperta a poche ore dalla chiusura del calciomercato.

E così, tutta la sera e tutta la notte, quel bambino e il suo papà rimasero in cucina a guardare le televisioni private, finché in sovraimpressione non comparve la scritta “Maradona è un giocatore del Napoli”. E quel bambino abbracciò forte suo padre.

Poi venne luglio, e dopo la storica presentazione di giovedì 5 allo stadio,  il Napoli andò in ritiro a castel del Piano, e nella prima amichevole Maradona segnò un gol in rovesciata, e quel bambino cominciò a vedere le sue prodezze in televisione, e cominciò a sognare. Ad agosto, quella famiglia di Napoli non andò in vacanza, ma una domenica di inizio settembre fece visita ai parenti della mamma a Vico equense/Seiano, e quella domenica in coppa italia a Pescara il Napoli vinse 3-0 e Maradona (che già era andato a segno nelle precedenti partite) realizzò una rete da terra, astrale: seduto spalle alla porta. Quel ragazzino vide il gol con i cugini della mamma che sembravano felici ed entusiasti, ma il più contento di tutti era lui.

Perché il campionato era alle porte, e la vita pure.

Ma il campionato non cominciò bene, il Napoli perse a Verona. Uno strano segno del destino, perchè quel Verona, proprio in quel campionato, avrebbe vinto il primo scudetto della sua storia e forse, chissà, fu proprio l’impronta del Campione nel suo primo campo calcato in campionato a marcare questa bizzarra controversa paradossale magia.

Una settimana dopo Maradona segnò il primo gol al San Paolo, su rigore, pareggiando contro la Sampdoria: quel ragazzino, con la radietta nella sua stanzetta, avrebbe sperato di vincere, ma all’inizio le cose non andarono per il verso giusto, e quando venne natale la sua squadra del cuore era messa davvero male.

Ma questo non intaccava l’entusiasmo di quel ragazzino. In casa c’erano altri tre figli. C’era una sorella maggiore che avrebbe giocato un ruolo decisivo nell’amore tra quel ragazzo ed il suo Campione, ed altri due maschietti, il più grande era certo il più intelligente e cristallino, ed aveva vissuto dai racconti di un suo amico l’epopea del grande Torino, e del Torino del ‘76 che rivinse uno scudetto dopo la tragedia di Superga, e che per questo aveva il cuore granata. Poi c’era il ragazzino protagonista di questa storia, il più furbetto e coccolato dei figli; e c’era l’ultimo bambino, il più piccolino, talmente estroso ed inclassificabile da poterlo definire fuoriclasse, a modo suo. I due maschietti più grandi si sfidavano a colpi di poster sui muri della loro stanza: per un ritratto di Diego, una gigantografia di Junior, per la squadra azzurra al completo immortalata sulla parete di un letto, la risposta granata sulla parete opposta. E molto spesso, i due fratelli coinvolgevano il più piccolo, l’inclassificabile fuoriclasse biondo, nelle loro rivalità, magari aizzandolo a strappare un poster per fare dispetto all’altro. Giocavano però anche tra di loro, in modo affettuoso, fantasioso, meraviglioso: il più grande tirava le punizioni alla Junior o alla Maradona, il più piccolo sul letto si posizionava in barriera, e l’altro – sul suo letto eretto a porta – provava a parare: era un tridente di giochi davvero impareggiabile.

Così, quando venne il natale dell’84 ed il più grande dei tre fratelli maschi ebbe in dono una kodak, fu proprio con quella kodak che scattò le foto a Maradona, ed al suo fratellino dentro il campo di allenamento a Soccavo Paradiso, dove il papà li aveva condotti, grazie all’amicizia con il preparatore atletico del Napoli che insegnava nella sua stessa scuola. Fu il giorno in cui il nostro ragazzino restò paralizzato, con l’agenda degli autografi tra le mani tremanti, davanti al suo idolo che usciva dal campo di allenamento, che gli passò accanto agitando la sua folta chioma riccia e che, rallentando e sorridendo, gli carezzò la testa. Quell’autografo, in quella agenda, su quel soppalco: ancora oggi, là. Insieme al ricordo di quella carezza.

Così, cominciò il 1985 ed il Napoli siglò il famoso patto di Vietri: la squadra andò in ritiro e dopo un discorso di Bruscolotti e di Maradona, a cui il primo cedette la fascia di capitano, prese a vincere. Vinse 4-3 con l’Udinese sotto una pioggia infinita, e Maradona segnò due rigori. Sempre Maradona stoppò ed incrociò a volo e il Napoli vinse a Firenze. E poi, a febbraio contro la Lazio, in un giorno triste per la morte del nonno di un amichetto di quel ragazzetto, Maradona fece tre gol, uno cadendo all’indietro spalle alla porta semplicemente immaginando nella sua iperbolica fantasia il posizionamento di avversario, portiere e porta; ed un altro direttamente dalla bandierina del calcio d’angolo. Ed a Napoli esplose la gioia. Ma niente, niente fu paragonabile, in quell’anno, a ciò che accadde il 3 novembre (proprio un 3 di novembre: un giorno in cui – 13 anni dopo – la sorella del nostro protagonista sarebbe diventata mamma), quando la juve di trapattoni che aveva vinto di fila le prime 8 di campionato scese al san Paolo in un giorno di diluvio epocale. Perché al minuto 27 della ripresa, quel ragazzino che ascoltava per radio in cucina “Tutto il calcio minuto per minuto” sentì Enrico Ameri urlare impazzito per una cosa fenomenale, una cosa che non si era mai vista, mentre la pioggia sembrava non finire più, come l’abbraccio tra il ragazzino e sua madre dopo quella punizione impossibile. “Maradoro” –  titolo il Mattino il giorno dopo, e lui ritagliò quella immagine nella sua memoria azzurra.

Quel Natale del 1985 i fratelli ebbero in dono il commodore, dopo una fantastica caccia al tesoro organizzata dai genitori, che culminò in un indizio surreale: di cercare dietro il “Marchesì” – con l’accento sulla ì. Marchesi – senza accento – era stato proprio l’allenatore del Napoli l’anno prima, il primo anno di Maradona. Sostituito da Ottavio Bianchi, si era trasferito al Como. Quindi marchesì – con l’accento sulla ì, equivaleva a comò – con l’accento sulla ò: il pacco contenente il computer, era nascosto dietro il comò della camera da letto: ora su quel comò ci sono due foto ed un’urna cineraria.

Ma quel regalo indescrivibile, quel commodore 64 del natale del 1985, amplificò il legame dei due fratelli attraverso la loro rivalità: tra cucina e stanzetta, tra radio e poster, tra giochi e sfide a Manic e Pipeline. Mentre il più piccolo, il lunare estroso bimbo biondo, si accingeva a partire per la toscana. E fu proprio in occasione della sua cresima, lui già di stanza a Livorno, che tutta la famiglia intraprese quel meraviglioso viaggio di fine maggio, tra macchina e treno. E nel ricordo del ragazzetto, quel viaggio di ritorno verso casa rappresenta uno dei momenti più intensi della sua adolescenza, perché oltre alle gioie che aveva vissuto in quel giorno, se ne aprivano altre: quel sabato di fine maggio del 1986, infatti, l’Italia da Campione del mondo inaugurava il mondiale di Messico ’86.

E furono quei mondiali a sancire il definitivo patto d’amore tra quel ragazzino ed il suo Campione. Perché quando l’Italia fu eliminata, e quando l’Argentina avanzò agli ottavi, il nostro protagonista si trovò con suo padre, la sera del 22 giugno, in quella stessa cucina e con quella stessa televisione della notte di due anni prima, del 30 giugno delle scritte in sovraimpressione, ad assistere alla più grande esibizione che si sia mai vista su un campo di calcio. Tanto che quando Maradona, in 10 secondi, partendo da centrocampo, e scartando tutta la nazionale e la nazione britannica, segnò il gol del secolo – non di quel secolo, ma di qualunque secolo – quel ragazzino si lancio a terra stralunato di meraviglia con una tale incosciente spregiudicatezza e contentezza da travolgere e far cadere sul pavimento tutti gli attrezzi del camino, che rotolando si produssero in un suono infernale e festoso che ancora oggi riecheggia in quella stanza, oggi che il camino è spento da decenni e che quegli strumenti non lavorano più, immobili nel tempo e rimasti però a scolpire quel fotogramma della memoria.

Quel ragazzino vide vincere il mondiale al suo campione, il 29 giugno a Siracusa, con suo cugino che tifava per i tedeschi, dopo un viaggio bellissimo in treno da Napoli alla Sicilia fatto con la nonna. Quella nonna che fu la prima a prenderlo per mano e portarlo in quel formicaio del mercatino di Poggioreale a comprare la maglia con l’immagine di Maradona; ed a cui quel furbetto chiedeva di comprare l’olio sponsorizzato dal suo idolo, la prima pubblicità fatta in Italia di cui non si trova più traccia. Quella nonna che durante quel viaggio gli parlava appunto dei santi, e lui che le parlava appunto di Maradona: per molti versi, dicevano le stesse cose.

L’estate del 1986 si allungò da Siracusa a Vico Equense con tutta la famiglia: un periodo meraviglioso per quel ragazzino che stava crescendo, e che a settembre sarebbe andato al Liceo.  Ma quel settembre non cominciò bene perché il suo campione venne trascinato in una triste storia di paternità rivendicata, ed il ragazzo cominciò a temere che questo avrebbe compromesso la bravura del suo idolo, distratto e distrutto da tante polemiche. E infatti, nella notte dei rigori di Tolosa, al primo turno di Coppa uefa, quando Maradona si presentò sul dischetto per l’atto decisivo, il ragazzo ebbe paura, ed allora uscì fuori dalla cucina per non guardare in televisione il tiro dagli unici metri, per la prima volta nella sua vita (la seconda sarebbe successa allo stadio, il 3 maggio del 1989). E infatti quel tiro finì sul palo. Ed il Napoli fu eliminato.

Ma da quì, da lì, da quella notte, cominciò un’altra storia. Una storia che sarebbe culminata in un 10, come il numero di maglia del Fuoriclasse. Il 10 di maggio del 1987. Talmente tutto intenso, ed immenso, ed indimenticabile, per un ragazzo di 14 anni, che quel ragazzo vi scrisse un racconto, il racconto più bello che sia stato mai scritto su quella cavalcata trionfale del Napoli dell’87. Perché scritto dal cuore di un fanciullo di 15 anni, quindi al culmine della più grande delle felicità che si possa immaginare.

1987: fu l’anno del suo primo bacio, un giorno prima della doppietta di Maradona ad Udine.

1987: la prima volta che lo vide allo stadio, con lo zio ed il cugino, a marzo contro la Juve – quando la Roma perse ad Udine, il Napoli andò in fuga, lo stadio tremò di passione e lui pensò che ci fosse il terremoto.

1987: la prima volta che vide Maradona segnare allo stadio, il 26 aprile contro il Milan, nel giorno che sua sorella decise che da quel momento lui sarebbe stato con lei sui gradoni, che doveva esserci, che doveva viverlo. Ed anche se quel giorno Maradona nascose a mezzo stadio ed a tutti i distinti – dove fratellino e sorella si trovavano – il palleggio con cui schiantò il Milan, perché troppo veloce, troppo abile, troppa magìa in quel gesto, due settimane dopo, come detto 10 maggio, loro due, fratellino e sorellona, erano ancora insieme mentre il Napoli si laureava per la prima volta campione d’Italia, e questa volta si vedeva bene, come si vedeva bene Maradona – fuoriclasse assoluto – saltellare per il campo da Capitano Campione d’ Italia.

Ed un mese dopo, Maradona capitano alzò la coppa italia mentre quel ragazzo era a Baia, perché quegli zii e quei cugini della prima volta allo stadio vi si erano trasferiti. Una coppa italia entrata nella storia, perché culmine di un percorso costellato di sole vittorie, tutte vittorie: un record che per definizione non potrà mai essere battuto.

Poi, tutto tracimò e tutto corse veloce e tutto si impresse in modo incancellabile in 3 giorni (dal 28 al 30 settembre) che cambiarono per sempre l’immaginario di quel ragazzino. Lui, che con i suoi fratelli maggiori durante la favolosa estate a Vico Equense (sarebbe stata l’ultima passata insieme da quella famiglia ma nessuno poteva immaginarlo) era stato al suo primo concerto, il 19 agosto a Cava De’ Tirreni, per vedere Vasco Rossi, il 28 settembre a Napoli, stadio collana, avrebbe riassistito a quel concerto, e Vasco Rossi quella sera avrebbe cantato una canzone intitolata: “15 anni fa”. Quella sera, incredibile: proprio la notte in cui quel ragazzo avrebbe compiuto 15 anni. E per i quali avrebbe ricevuto dalla sorella un regalo inestimabile: il biglietto da 120.000 lire per i distinti, 30 settembre mercoledì, in occasione della prima partita della storia giocata dal Napoli al san paolo in coppa dei campioni. La partita (il più bel primo tempo di calcio mai visto) di quando quella sorella dovette placare a schiaffi le urla isteriche del suo fratello minore.

Ma il Napoli da quella coppa, dopo quel pareggio, venne eliminato. Eppure, stravinceva in campionato. Domeniche autunnali ed invernali di vittorie e di pioggia, in cui le uniche preoccupazioni di quel ragazzo erano legate ai viaggi che i suoi genitori, ogni 15 giorni, facevano in macchina per andare a trovare a Livorno quel biondo, lunare, inarrivabile fratellino minore.

Intanto Maradona fu ancora campione d’inverno, nel gennaio del 1988, quando espugnò Marassi con un tuffo nel fango che quel ragazzo replicò nella stanzetta, sbucciandosi le ginocchia col suo incosciente entusiasmo.

E poi tutto cambiò: la storia di questa famiglia, di quel ragazzo, e di quella squadra e di quel Fuoriclasse si ficcò in un incrocio di sconfitte e di dolore irreparabile. Anche qui altri tre giorni indelebili, tra la fine di aprile e l’inizio di quel maggio del 1988: le dichiarazioni del suo idolo lette sul giornale andando a scuola con la metropolitana: di non voler vedere nessuna bandiera rossonera allo stadio; ed il ritorno da scuola nel giorno in cui la mamma fu dimessa dall’ospedale. Sembrava un lieto fine, e invece: quello stadio finì per applaudire i rossoneri, in quel primo indelebile giorno di maggio dell’88, esattamente alla stessa ora – due giorni dopo – in cui quel ragazzo, rientrando dalla scuola alle 17.45 del 29 aprile, aveva appreso dalla bocca e dalle lacrime di sua madre ch’ella aveva un cancro. E quando la punizione irreale di Maradona allo scadere del primo tempo pareggiò illusoriamente il risultato, quello fu l’unico momento di felicità sospesa – per un attimo durato eternamente – da quei 4 mesi in poi, fin che gliela portarono via – la mamma, e l’adolescenza, nell’agosto che venne.

Ma quando finì quell’estate tragica, e ricominciò una nuova stagione, fu proprio contro il Milan, nella rivincita del 27 novembre, che Maradona andò ancora una volta oltre ogni logica, e segnò una rete che trattenne il respiro di un intero popolo per secondi durati minuti durante i quali la palla sembrava tentennare di fronte alla rete ed a tanta grandezza, man mano che vi si avvicinava: fu un pallonetto/di testa/da fuori area/in controtempo. Questa formula, quel ragazzo se l’è ripetuta per anni così: a pallonetto – pausa (senso della giocata straordinaria); di testa – pausa di stupore (lui, alto 1.68); da fuori area – pausa (senso della distanza dalla porta); in controtempo (col pallone che quasi tornava dietro, e quasi fisicamente impossibile da imprimergli forza) – pausa (di sconcerto stupore incanto assoluto).

In quell’autunno triste, in quell’inverno spoglio del 1988, c’era il campionato di qua. E la coppa uefa di là. Ci fu la settimana appunto perfetta: 20 novembre 5 gol alla juve a Torino, 23 novembre vittoria a Bordeaux, e 27 novembre – come detto: il pallonetto/di testa/da fuori area/in controtempo.

E c’era sempre la sorella che gli comprava i biglietti per quelle sfide europee in  notturna, con cui andava insieme a fuorigrotta salvo separarsi, fisicamente, fuori lo stadio: lei in curva, lui nei distinti. Fu grazie a lei che da quei distinti, la sera del 15 marzo, quel ragazzo vide Maradona cominciare con un rigore impeccabile la storica rimonta contro la juve, completata da Renica al 120° minuto, con un’esultanza letteralmente rotolata tra gradoni ghiacciati di cemento, circondato da tifosi venuti da torino – juventini – che lo aiutarono a rialzarsi, con lui che capriolava di pazzìa e che ebbe rispetto, si fece aiutare a sollevarsi, si prese i complimenti dei tifosi avversari ed ebbe la sua prima lezione di sportività da stadio, data e ricevuta. Ed era sempre lì, sui distinti, il 5 aprile della semifinale col bayer, quando il suo idolo lanciò Careca in porta al 40° del primo tempo, sotto una pioggia incalzante, e qualcuno – un pazzo, un genio – esultò urlando che “era uscito il sole”. Ed era lì, nei distinti, il 3 maggio del 1989. Poche ore prima, a casa, mise la sveglia sul casio alle 16.30 del pomeriggio, che la sorella sarebbe passata da lavoro a prenderlo, per andare allo stadio insieme. E quella sveglia, quel ragazzo poi adulto, la lasciò a perenne memoria (finché il casio si spense nel 2011) per tutti i successivi 3 maggio che vennero. Quel 3 maggio in finale, quando per la sola volta nella sua vita da stadio (e seconda in assoluta, dopo il settembre del 1986 in tv col Tolosa) voltò le spalle al campo mentre Maradona batteva il rigore che avrebbe pareggiato il vantaggio dello stoccarda, troppo emozionato per poter reggere lo sguardo su quegli 11 metri tra sé e la speranza, e quasi sull’orlo dello svenimento. Quel 3 maggio che di ritorno dallo stadio comperò la sua prima sciarpa, quella stessa sciarpa che, a distanza di 18 anni, avrebbe legato – perennemente ed a tutt’oggi – alla ringhiera del balcone di quella stanzetta di quei tre fratelli, quando il 10 giugno del 2007 (ma questa è un’altra storia)  il Napoli ritornò in Serie A, e proprio nello stesso giorno in cui il suo fratello biondo, lunare, inclassificabile fuoriclasse sarebbe tornato a vivere vicino a loro, e che lui – quell’adolescente del 1989 ora adulto del 2007 – era andato a prendere, il giorno prima, insieme al padre con la macchina, il padre delle partite in cucina, nell’ultimo viaggio insieme delle loro vite, andata e ritorno da Napoli a Collesalvetti in un solo giorno, sabato 09 giugno 2007. Ma il primo, il primo di questi viaggi, ci riporta a maggio, per tornare al nostro racconto, ed esattamente due settimane dopo quel 3 di maggio, il 17: quando con due assist (uno di testa, a pallonetto, da fuori area, a volo: ricorda qualcosa?) Maradona consentì al Napoli di alzare la coppa. E appunto lì, suo padre a sorpresa, in modo inatteso, imprevedibile, quasi come una finta del suo idolo, al termine della visione della partita (sempre insieme, sempre in quella stessa cucina), lo prese con sé e lo portò per le stade di Napoli a festeggiare. Fu il primo momento in cui si ritrovarono insieme, da soli (pur travolti dall’esplosione di gioia collettiva delle strade), felici, ad abbracciarsi dopo la perdita di una madre e di una moglie. E questo fu il 17 maggio del 1989, ed il loro lungo viaggio insieme nella lunga notte di una città impazzita sul tetto d’europa.

Venne l’estate, l’estate dei dorados, e di Maradona che voleva andare via. Ma così non fu. Ed anzi, quando a settembre si riaffacciò al San Paolo, entrando in campo nel secondo tempo di Napoli Fiorentina, pur sbagliando un rigore a pochi minuti dall’inizio della ripresa, trascinò con la sua sola presenza gli azzurri ad una rimonta strepitosa, ribaltando lo 0-2 in 3-2. E marchiando a fuoco il senso di quel campionato, che sarebbe stato proprio il torneo delle rimonte impossibili, spesso negli ultimi minuti. Eppure, in Coppa uefa, da detentori del titolo, gli azzurri stentarono: passarono il primo turno con lo Sporting Lisbona solamente ai rigori, nel mercoledì che precedette il 17° compleanno del nostro ragazzino oramai quasi adulto, il 27 settembre, proprio il giorno in cui il padre gli regalò il primo motorino. Ed era sul motorino che si trovava due mesi dopo, insieme ad un compagno juventino che ritroveremo nel corso di questo racconto, scappando da Napoli Werder Brema nella disfatta del 22 novembre, anticipo di quella che sarebbe stata una delle più grandi caporetto sportive del Napoli del suo idolo, il ritorno in terra tedesca funestato da 5 marcature avverse, nel giorno dell’onomastico di suo padre, il 6 dicembre del 1989, mentre suo fratello maggiore si prendeva una rivincita sportiva esultando di nascosto ad ogni rete nemica, spalleggiato dal suddetto compagno di tifo contro.

Sì: perché la maggiore età del suo fratello dal cuore granata, e la conseguente patente, e la macchina, aveva accorciato le distanze tra loro ed un gruppo di amici con cui ci si vedeva spesso, e sempre in quella casa: il loro storico fratello giallorosso, nato per errore in un’altra famiglia (ma nella famiglia più giusta in cui nascere), e l’amico di liceo del nostro protagonista, juventino d’elezione, che per questi stessi intrecci della vita qui esplorati sarebbe poi diventato cognato di quello stesso fratello maggiore. Una combriccola sconclusionata e confusionaria di adolescenti che lì, in quei tempi, in quella casa, in quella città, attraverso quelle rivalità, le mille sfide, le mille storie, i loro intercambiabili ed occasionali altri compagni d’avventure, hanno edificato separatamente ed unitamente le leggende indimenticabili dei loro ricordi di gioventù, reali od immaginari che siano: perché è così che si passa da essere adolescenti ad essere uomini. Anche così. Soprattutto così.

Eppure, fu proprio, sempre ed ancora suo fratello maggiore che gli diede la notizia della doppietta di Maradona, nell’unica domenica in cui il nostro protagonista era tagliato fuori dal mondo del campionato: il 25 marzo del 1990, durante la gita in Olanda con la scuola. E dolcissimo, onesto, fu quel “purtroppo” con cui suo fratello (a cui il nostro protagonista, durante quella stessa gita, rivolse forse il suo pensiero d’amore più acuto, mai detto e ed immalinconito di tutte le loro esistenze, telefonando a casa, in un pomeriggio a caso di quell’esperienza olandese, per sapere come stavano lui ed il padre) aggiunse che anche il Milan aveva vinto, a Lecce. E che i giochi per quella volata pazzesca di un campionato dominato nel girone d’andata, e perduto prima, quasi ripreso poi, erano rimandati alle ultime successive 4 sfide.

Ma ne bastò una di domenica, il 22 aprile – dopo due turni interlocutori – per sigillare il secondo scudetto. L’impresa di Bologna e la fatal Verona rossonera, in un esatto ribaltamento di ciò che era avvenuto due anni prima. Con un prosieguo post-partita indelebile, il nostro protagonista sul suo letto a ridere isterico di gioia, e suo padre con la radio a tenergli compagnia. Il tutto nel giorno del compleanno di un altro padre, quello del suo compagno juventino, tifosissimo degli azzurri, ed a cui il nostro protagonista regalò, 7 giorni dopo, il biglietto per lo stadio del secondo tricolore. Perché sì, questo intreccio di storie, di date, di gioie e dolori, ha un risvolto combinatorio davvero impressionante. Maradona capitano tornò Campione d’Italia il 29 aprile del 1990, alle ore 17.45: esattamente due anni prima, stessa ora, stesso giorno – 29 aprile 1988, ore 17.45 – quel ragazzo liceale, l’ho già scritto e lo ripeto, stava apprendendo dalle parole della madre quella amara, funesta, irreversibile verità raccontata sopra. Ed una stessa combinazione assurda di date si avrà qualche mese più tardi, quando Maradona ed il Napoli tornarono in Coppa dei Campioni e presero parte per l’ultima volta a quel torneo, che negli anni avrebbe cambiato prima formula e poi nome. Perchè dopo aver superato il primo turno, il Napoli giocò quella che sarebbe stata la sua ultima partita in Coppa campioni al San Paolo il mercoledì 24 ottobre. La sera stessa in cui il nonno del nostro protagonista, il papà di sua mamma, se ne andò.

Del resto, i figli di questa famiglia, hanno conosciuto la loro età maggiore esattamente: la sorella, nel 1984 – anno di arrivo di Maradona al Napoli; il fratello maggiore, nel 1987 – anno del primo scudetto (che può suonare come un regalo beffardo da parte del Fuoriclasse argentino, per lui cuore granata); il nostro, nel 1990 – anno del secondo scudetto azzurro; e l’ultimo, pur nella sua incosapevolezza, nel 1994, nel luglio del 1994, nel luglio dei Mondiali del 1994 – gli ultimi mondiali giocati da Maradona, con lo storico gol alla Grecia (4 presenze consecutive in 4 mondiali con almeno un gol), l’urlo di tigre nella telecamera, e poi la cacciata indegna di potentati indegni.

Ma quel 1990, dopo il secondo scudetto, ed una seconda travolgente ondata di festeggiamenti in città, fu appunto anno di Mondiali, di Mondiali in Italia e di uno snodo incredibile da immaginare, e che pure andava immaginato, ed in qualche modo calcolato e quindi evitato: la semifinale tra l’Argentina di Maradona e l’Italia. A Napoli.

Di qui, come tutti sanno, la storia tra il paese italico e Maradona lasciò spazio a vendette e veleni: venne un campionato azzurro mediocre (in cui il Napoli, altra circostanza incredibile, vinse la sua prima partita nel primo giorno in cui il nostro protagonista diventò maggiorenne) venne una coppa dei campioni persa ai rigori a Mosca, dopo il doppio 0-0 del 24 ottobre detto sopra, ed il ritorno del 7 novembre, e nel 1991 si giunse alla fine della storia, ai titoli di coda, nel modo più annunciato, complottardo ed umiliante: la provetta di urine, l’antidoping, ed una fuga notturna in solitudine. Ma anche qui, non mancò una strana magia, un simbolismo assurdo, una chiusura del cerchio da brividi: 24 marzo, ultimo gol di Maradona in campionato, contro la Sampdoria su calcio di rigore, esattamente come era cominciato tutto, in quel settembre del 1984. Ed ancora e sempre contro la Sampdoria, sempre in quel marzo del 1991, l’ultimo gol di Maradona al san paolo, in coppa italia, di testa, in uno scialbo mercoledì di una fredda serata, dove quel ragazzo, sempre dai distinti, prese congedo dal suo Campione per sempre, in viva visione.

In quell’aprile del 1991, da quell’aprile, il ragazzino di dodici anni che era cresciuto tra vicende di famiglia, di amici, di scuola e di calcio intrecciate inestricabilmente, lasciò spazio definitivamente al ragazzo adulto, il ragazzo oramai diciottenne, il ragazzo della maturità liceale, e degli anni che sarebbero venuti: l’università, il lavoro, i lutti. Ma spesso, legati indissolubilmente dall’amore ed all’amore per il loro idolo inarrivabile, quell’adulto e quel fanciullo che fu si ritrovarono insieme a godere delle gioie che Maradona continuava a spargere nella storia del mondo. Le apparizioni televisive. L’addio al calcio registrato su una vecchia VHS collegata a quel vecchio televisore di quella cucina sempre meno affollata. Gli abbracci ricevuti a Praga dal nostro protagonista, nel 1997, in compagnia del suo amico giallorosso, quando in un pub della città alcuni ragazzi di bergamo (di bergamo!) gli chiesero di raccontare Maradona, loro di Napoli, loro che lo avevano visto, avevano assistito all’Oro di Napoli! E sempre un addio al calcio giocato, quello di Ferrara nel 2005, sancì per un giorno il ritorno del Re nella sua amata Napoli, una città paralizzata ed una riconciliazione universale tra l’idolo ed ogni singolo cittadino di questo paese, che giunse a livelli inesplorati e parossistici, come testimonia una mail che quell’amico juventino mandò al nostro protagonista, una mail che lui ancora conserva, dopo 15 anni. E poi ancora: la maglietta definitiva acquistata al museo Maradona, con cui presenziò al matrimonio di un altro fratello di vita, nel luglio del 2012. E due anni prima, il tifo incondizionato per il suo idolo allenatore dell’Argentina mondiale

Intanto, la sorella maggiore aveva avuto due figlie; e così il fratello maggiore. Il padre, come detto, fu protagonista di un ultimo viaggio insieme, il 9 giugno del 2007, quando il fratello più piccolo, anch’egli oramai adulto, ma sempre metafisico ed inarrivabile, venne portato da Collesalvetti a Napoli, dormì in quella casa un po’ meno vuota, assistette al ritorno del Napoli in serie A il 10 giugno del 2007, e dai suoi occhi celesti – come il cielo di quel pomeriggio – osservò suo fratello, il protagonista di questo racconto, recuperare una vecchia sciarpa da un cassetto, la sciarpa del 3 maggio di 18 anni prima, e gli vide fare un nodo alla ringhiera del balcone di quella che venti anni prima, e prima ancora, era stata la stanzetta dei giochi di 3 fratelli.

E poi, il giorno dopo, tutti quanti, padre e fratelli e sorella, accompagnarono il ragazzo più piccolo nella sua nuova casa, a CastelCampagnano. ma anche questa è un’altra storia. In apparenza.

Perché, rimasto solo in quella casa, testimone delle sue memorie, le più belle e le più brutte, il nostro protagonista, oramai uomo adulto, giunto nel mezzo del cammin della sua vita, ed avanzato anche oltre, non si faceva mancare occasione per chiamare accanto a sé, dal dentro di sé, quell’adolescente di 12 anni con cui, e grazie a cui, era cresciuto. Ogni pretesto era buono: una foto, una canzone, un ricordo, un film. E il loro tramite, il pretesto, la scusa più bella, era il più delle volte legata al loro idolo comune, Maradona.

Così, una sera del novembre del 2019, il giorno 25, alle ore 17, l’adulto – amante del cinema – chiamò al suo fianco quel fanciullo, per vedere insieme il film che tempo prima fu proiettato al Festival di Cannes, film su Maradona, con filmati inediti di Maradona, e filmati forniti proprio da Maradona: un docu-film incentrato esclusivamente su quei 7 anni napoletani del Fuoriclasse assoluto. Logico, emotivamente e razionalmente logico che quel film lo vedessero insieme, quell’adulto e quel fanciullo: riguardava la loro vita allo stesso modo, nella stessa misura e con la stessa intensità. Così, due ore dopo, si commossero e piansero insieme: era stata una bellissima visione, ed un bellissimo pomeriggio, quel pomeriggio del 25 novembre del 2019 cominciato alle ore 17.

Poi (ed in questo poi c’è tutto l’orrore che si possa concepire, tra cui il più straziante dei lutti) si giunge all’anno dopo.

Non “un anno dopo”: un anno preciso, secco, calcolato al millimetro. 25 novembre 2020 – ore 17. Quel ragazzo, oramai adulto, oramai stanco, sfiduciato e disilluso da tanto dolore, eppure ancora vivo, ancora vigile, ancora in controllo, è seduto alla sua postazione di lavoro, in una sala deserta di un centro diagnostico. Distrattamente alza la testa ed indirizza lo sguardo verso il televisore dell’accoglienza. E sul canale delle notizie, c’è una scritta in sovraimpressione. Perchè questa storia cominciò con una scritta in sovraimpressione, e sempre per questa assurda, circolare ed incontrollabile fatalità del caso, con una scritta in sovraimpressione doveva finire, irreversibilmente.

Come un anno prima: lacrime. Di genere esattamente opposto. Due ore di lacrime, due ore di lacrime rumorose, inconsolabili, che lo accompagnano dalla sua postazione di lavoro alla macchina, e dalla macchina alle strade del ritorno, e di qui alle scale, alla casa, all’accensione della televisione di quella cucina. E’ stato lì, in quel momento, in quella cucina, che il ragazzino e l’adulto si sono dati un ultimo appuntamento, perché in tutte le cose della vita c’è un inizio, e purtroppo una fine. Eppure in quel loro ultimo appuntamento, il loro ultimo incontro, l’ultimo abbraccio, non erano soli e non erano stati lasciati soli dal loro idolo tanto amato. Quella sera del 25 novembre, proprio come un anno esatto prima, Maradona era lì con loro, attraverso tutti i ricordi e le storie ed i racconti di questo racconto, le storie di 7 anni, di una vita, e di una famiglia, di nonni, di genitori, di fratelli, sorelle, amici, e partite, stadi, esultanze, disperazioni, risate, urla, e film, ed emozioni, emozioni incredibili, uniche ed irripetibili. Tuttte le storie con cui Maradona li aveva accomunati e legati per sempre. E, come per quell’adulto, in quella casa, in quella stanza della cucina, così in altri milioni di appartamenti, di case, di strade, di tutto il mondo. Maradona è arrivato, ha preso per mano quel fanciullo, con la sua famosa mano, la mano de Dios, e l’ha portato via, via da quell’adulto, lo ha portato con sé, perché un Fuoriclasse non è fatto per gli adulti, gli adulti sono adulterati, hanno perso il sogno, la magia, la speranza, l’illusione. Ed il più grande di tutti, il più grande artista di sempre, per continuare a recitare, a regalare gioia e magia, anche dopo la sua morte, deve poterlo fare per un pubblico speciale in un luogo speciale, e allora chi, meglio di un fanciullo, merita di assistere ad uno spettacolo puro che non morirà mai?

Così, proprio così è finita questa storia: in quella stessa cucina. Senza più quel padre, perso nella dimenticanza di una malattia irrecuperabile. E senza più quel lunare, magnifico, stordente di innocenza e di purezza fratellino minore, che lasciò questa sferica terra all’inizio dell’anno, di quest’anno peggiore di sempre. E che giace, spoglie mortali, in un’urna posizionata su quel comò. Il famoso comò di Marchesì, della fantasia di due genitori e del regalo più bello che accomunò gli altri due fratelli.

Ad un tratto, come repentina geniale invenzione calcistica, una giocata ad effetto: Maradona ha dribblato quell’adulto, ha preso per mano quel fanciullo, ed è andato in rete nell’empireo universale, negli abissi astratti dell’infinito che a noi non è dato vedere, mai più. Si è portato via il fanciullo, e per la prima volta nella sua vita, e da quel momento, quel ragazzo oramai adulto è rimasto da solo, come mai era stato.

Quindi, ogni volta che tu mi chiederai di parlare di Maradona, io probabilmente resterò muto, e se avrai occhi e sentimento per capire quel silenzio, comprenderai che tutto è scritto qui, in questa storia di una famiglia, e del bambino più coccolato di quella famiglia, e del racconto di come quel bambino, divenuto adulto, perse la sua ultima partita congedandosi per sempre dal fanciullo che fu, la sera in cui Maradona morendo rese la terra meno sferica.

Perché quell’adulto sono stato io.

 

 

 

UN TERZO DI SECOLO, ORA.

DOMENICA 10 MAGGIO 1987 – DOMENICA 10 MAGGIO 2020




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