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12 MARZO 2024

Scegliere di restituire l’amore di mio fratello agli elementi primordiali dell’universo insieme a mio fratello e sorella maggiore nel terzo anniversario del congedo di nostro padre dall’esistenza terrena, sulla spiaggia di Seiano a Vico Equense che ci vide Famiglia secoli fa. Ecco: per provare lontanamente ad immaginare quello che sono e sono stato basta il giorno che è ed è stato oggi. Vale innanzitutto per me stesso.

Ti sia di grazia l’immemore ricordo che mi vale una vita intera.

“Across the fields of mourning to a light that’s in the distance.Oh, don’t sorrow, no don’t weepFor tonight at last I am coming home.I am coming home”.

20 ANNI

Nulla è cambiato e niente è passato dalle parole che scrissi. Solamente 10 anni: e cosa sono 10 anni di fronte all’eternità?

“Perché io ti amo: perché tu sei Marco Pantani”.

 

2023

“son quelle cose dette senza pensare e che, anzi, vanno dette proprio perché non vengono pensate, anche perché se le pensassi davvero non le diresti mai e anzi, probabilmente, non è che non le diresti seppur pensandole, ma più semplicemente non le penseresti neanche, non le pensi neanche. Le dici solamente. E a volte le scrivi”.

 

quest’anno ho vinto lo scudetto

e perso il ben dell’intelletto

nelle troppo spesse rese dei conti a letto

mi resi conto di quanto spesso ho detto

perché del resto niente ho scritto

nessuno scatto e un passo sciatto

pensato troppo e pianto oltre

nel malinconico vuoto circolare.

Ma: non tutto è da buttare.

Salvo – non come escluso ma il suo opposto:

un video, una foto una sedia ed una radio

una curva al tramonto una bandiera volata da irreale corridoio

una moneta e una scatoletta piena di sogni

di mio padre e mio fratello tutto intenso vero e bello.

d’altro taccio che ho smarrito il tocco.

Pure: fui quel che fui e sono ciò che so

e so che ancora sono ciò che fui

anche non trovandomi, e vano riprovandoci

riprovevole dimenticandomi.

Ma va bene così: perché un giorno ci riderò

– amaro: il riso ma non quel dì

quando il senso mi ridarò

che sarà allora che capirò

il pensiero muto che lascio qui.

 

“dalla terrestre volta, per ancora una volta: io travolto volto il volto”.

COSA RESTA STARE CASO

Mi sento finalmente sgravato da un peso esistenziale, o almeno da un cruccio morale che per me era tale. L’idea che potessi illudermi (o riuscire ad illudermi) di scrivere di emozioni, sottolineando i concetti di idea ed illusione, perché so bene che la realtà procede in senso opposto: l’ho messo volutamente a presentazione e senso di questo mio spazio pubblico, che nell’incipit recita: “Se è vero che le emozioni prescindono dal linguaggio (e prova ne sia che anche gli altri esseri viventi – animali in testa, hanno sensazioni inesprimibili perché prive di linguaggio, ma le hanno)” – ed in cui, appunto parlando di illusione, aggiungevo : “Come – cioè – esponenti lontani e successori secolari delle stirpi geniali che nei millenni lo generarono e codificarono (il linguaggio umano), si dovrebbe rivendicare il diritto di appellarsi ad una illusione. Vale a dire che le sensazioni, le emozioni pure più mie ed irripetibili, che non posseggono un linguaggio esterno e nemmeno uno interno, possano esplodere la gabbia della lingua e possano procedere in una dimensione commotiva opposta a quella strumentalmente segnata dalle cifre della lingua” – per concludere in seguente guisa – “allora io mi illudo di inseguire quel sentiero lastricato di candore, dove le mie parole diventino lo strumento malleabile, adattabile e flessibile di un gioco degli specchi, dove i miei suoni, i miei colori, le mie immagini più profondamente “dentro”, ottengano l’omaggio di una fotografia su bianco carta, senza che il codice scritto prenda il sopravvento, ma lasciando che sia l’inarticolato mare di dolore e commozione interiore ad esprimersi come meglio crede, con gli strumenti che ritiene più adatti al frastuono di quella stessa Illusione”.

Bene. Mi sento sgravato dal peso, da quel peso, da ogni possibile peso: quell’aspirazione, come ho sempre saputo, è impossibile. Era il preciso equivalente di un’ultima tentazione di Cristo, di un ultimo scherzo di Joker, di un ultimo colpo di Mano di D10S. Mi sembra tenero appagante significativo e simbolico che ciò abbia trovato conferma grazie al realizzarsi del mio ultimo desiDario adulto, che mi ha concesso il lusso di veder combaciare fenomeno e noumeno, entrandovi dentro come il Capitano David quando attraversa la dimensione spaziotemporale in 2001.

In fondo, era solo una curiosità assai filosofica e metafisica. It’s that all.

Detto ciò – e posto che di post probabilmente ne metterò ancora, e quando proprio sarà che “non ho parole”, mi limiterò a scrivere: IBIDEM (che mi è sempre piaciuto, e tornato sempre utile), mi è venuto in mente un aforisma distillatissimo Vecchioleviatano, che non so se c’entri ma fa tanto e tanto brodo, direi sbrodolone: “mi ero illuso di non avere più paure, ma era solo la paura di non avere più illusioni”.

E poi – a futura memoria – per quel molto e troppo inespugnabile inoppugnabile ed inesorabile segreto che ognuno di noi si porta dentro, assurdamente incomunicabile (che significa ipso facto che la cosa che ammiro di più è quando una persona si suicida senza lasciare scritto nulla) posso con cognizione di causa dire che davvero adesso io

posso anche morire.

Non perché intenda farlo, ma perché ho attraversato il fenomeno e sono giunto al noumeno di quel modo di dire che per me, dalla serata abissale del 04 maggio 2023, tale più non è.

3 DOPO 33 ALLA GIORNATA 33

Ora, in fine
Posso
Anche
Morire.

Seppellitemi così, qui.


sì, lo so lo so: tu ora mi dirai che sono un cialtrone, un buffone, un chiacchierone.

Uno che – è legge – è stato annoverato tra i più grandi tifosi della storia azzurra, abbonato al calcio Napoli per 12 campionati consecutivi, dalla stagione 2002-2003 – primo acquisto col primo stipendio da regolare dipendente assunto a luglio 2002 – quint’ultimo posto in serie B e retrocessione evitata per un rigore regalato dall’arbitro Nucini come omaggio alla storia sportiva della città ed ai 70.000 disperati accorsi contro la Triestina, alla stagione 2013-2014 (con ultimo match contro il Verona a visione negata causa partita a porte chiuse, costo del match regolarmente scontato (nel senso di condanna e non di sconto) perché compreso nel suddetto abbonamento: i cosiddetti rischi del mestiere). Mi sono fatto 3 campionati di B, di cui il secondo (stagione 2003-2004) con 5 partite a porte chiuse a Campobasso (pagando, cioè, per immaginare via radio 5 puntate di uno spettacolo cimiteriale), 2 di serie C (di cui il primo, stagione 2004-2005, con annesso play-off, regolarmente perso) e 7 di serie A. Fuor d’abbonamento, ho assistito in epoche preMaradoniane ad un paio di salvezze di rigore timbrate Ferrario, ed in epoca divina alle vittorie con Juve e Milan della primavera ’87, quando Diego con tre palleggi consecutivi segnò uno dei tanti gol del secolo. Ero allo stadio il 10 maggio, e non aggiungo altro. Via via, nel quinquennio preabbonamento, mi sono fatto le ossa tra A e B, con due retrocessioni sul campo, una in particolare nel giorno in cui la Roma venne al Sanpaolo (ai tempi si chiamava ancora così) che doveva prendersi il tricolore, noi dovevamo salvarci, finì chiaramente drammaticamente pari, e la storia di quel match (10 giugno 2001) è finita su youtube perché il sottoscritto entrò allo stadio con una telecamera antidiluviana e riprese tutto.  Oltre ciò, ho assistito ad una monumentale sequenza di partite di ogni coppa possibile, coppa campioni (tra cui la prima nella storia del Napoli, 30 settembre 1987), champions league, coppa uefa (tra cui ottavi, quarti, semifinale e finale di quella vinta nel 1989), europa league, coppa italia (manifestazione a cui sono particolarmente legato perché fu lei che mi vide per la prima volta allo stadio, con Zio Salvatore, il 30 agosto del 1981: Napoli Cremonese 1-0 rete di Pellegrini in rovesciata), supercoppe italiane (tra cui quella vinta il 1° settembre 1990 contro la ridicola juve di maifredi, e – udite udite – una finale di supercoppa di serie C persa contro lo Spezia, partita di cui ad occhio mi ricordo solo io e qualche novantenne ligure che ancora non crede possibile poter affermare – senza tema di smentita: “ho sconfitto il Napoli in finale”), play off, play out, insomma la qualunque, e sempre regolarmente andando allo stadio 4 ore prima, sempre allo stesso posto con lo stesso giornale e stesso (variabile) libro di Bukowski, con la stessa bottiglia di acqua mimetizzata nella sciarpa tenuta in mano per giuocare d’astuzia i controlli all’ingresso stile Fantozzi, con i due borghetti regolarmente inseriti nel lato posteriore dei calzini, con la solita regolarità nell’accensione delle sigarette precisamente ad inizio primo tempo, inizio secondo tempo, e circa 25° (o 27°, a seconda del risultato) della ripresa nonché a due minuti dal 90° per allungarmi nel presumibile recupero di 4-5 minuti, con una costanza ed una fede incrollabile sotto ogni punto di vista e da qualunque latitudine la si osservi, e per questo apprezzata a livelli collettivi ed universali, al punto che più volte ho avuto il sospetto che l’arbitro, prima del fischio di inizio, verificasse che io fossi presente per salvaguardare la regolarità del match e dell’intiero campionato. Tutto ciò è vero, è legge (e leggenDario).

Come è vero, però, che dopo il vergognoso furto legalizzato ai miei danni proprio esattamente 5 anni fa, il 29 aprile del 2018, il proverbiale ed ancor oggi insanguinato campionato rubato a Milano e quindi “perso in albergo a Firenze”, e poi dopo quelle manifestazioni plastificate a stadi vuoti circondati da alieni in mascherine per tutto il fottuto anno bisesto, e quindi – a conclusione del suddetto anno peggiore della mia esistenza – dopo la morte del D10S, inesorabilmente anche dentro di me qualcosa, molto, quasi tutto si spense, e – con quello che resta ad oggi il mio epitaffio assoluto – chiusi per sempre con il tifo per il Napoli peraltro sancendo, o meglio ufficializzando la cosa nel giorno del mio mezzo secolo esatto di vita – laddove, nel confronto decennale col post del quarantennio – a vedere cosa restasse e cosa no dei motivi per cui varrebbe la pena vivere la vita se valesse la pena viverla davvero, così, testuale – in merito al tifo azzurro – scrivevo: “Lo scandalo è la sparizione del Napoli. Quando scrissi quel post, se fossero venuti da me queruli e questuanti tutti i me di un futuro cominciato da qualche anno (due o tre) a scandalizzarsi che 10 anni dopo non ci sarebbe stato, li avrei rispediti al mittente, argomentandone con un cenno della mano inequivocabile l’impossibilità. Inequivocabile tanto il cenno quanto l’impossibilità. Che poi come si vede non esiste, al limite l’improbabilità. Che poi come si vede non era potenzialmente tale, nella tremenda fattispecie”.

Vero, tutto vero. Roba di manco un anno fa. Peraltro corredata, nell’ultimo triennio, da sprezzanti sfottò nei riguardi di coloro (colleghi, amici, nipoti vari) che ancora (ancora ai miei occhi disillusi e sarcastici) professavano la loro fede imperterriti, in questi anni postsarriani ancelottiani, gattusiani, praticamente ironicamente genialmente definibili malthusiani (perché sono pur sempre un raffinato filosofo ed intellettuale, pur se per soli 5 secondi al giorno, quando va bene).

Poi però, di lì a poco compiuto il mezzo secolo e tutta sta roba descritta, in un giorno di novembre 2022, mentre di soppiatto di nascosto in un antro semibuio del luogo in cui lavoro, durante una pausa pranzo di tre secondi (visto che non pranzo più dal 2009) mi scimunivo con il mio teorema del quadrangolo magico degli opposti numerici, una mia collega storica e di me più grande mi vide (disperato, perché stavo dando i numeri a me stesso, irridendomi e impazzendo quasi peggio di John Nash) e mi si accostò con pudore per sussurrare nell’aere una domanda che da quel momento mi esplose dentro come un rinnovato big bang. Questo fu il suo semplice dirmi: “Dario, ma tu non tifi più per il Napoli”? Ecco, quel tragico  semplice interrogativo, banale, fintamente distratto, posto in modo accorato e rammaricato da una persona che per secoli aveva vissuto le vicende del calcio Napoli anche e soprattutto attraverso le mie ventennali rendicontazioni, rimpiantizioni, felicitazioni, saliscendazioni costanti e continue sul loculo di lavoro, mi pose faccia a faccia con l’abisso di 50 anni di passione indicibile, estrema, apodittica, che per decenni – ci sono dettagliate testimonianze a supporto – avevo esemplificato in una frase diventata lo slogan della mia vita adulta: “prima di morire vorrei mi accadesse una sola cosa (p.s. nota il “mi”: come fosse un fatto personale e non generale. Perché concerneva il voler vedere non tanto la cosa in sé, il noumeno; ma il come avrei visto me mentre vedevo la cosa, il fenomeno insomma). – “non ori, non successi, non presidenze, non donne a fottìo, ma solo una cazzo di stupida inutile rivisitazione di un’emozione: vedere il Napoli vincere lo scudetto ancora una volta, una sola ultima volta”.

Ecco: da quella data di novembre 2022, è stato un crescendo di pensieri e di autoanalisi calcistiche ed esistenziali che per carità di patria, e per demenza senile, evito di riportare. Con nel mezzo un mondiale dicembrino a tifare argentino e ritrovarmi a lacrimare di gioia quando il 10 li ha MESSI tutti a tacere alzando la coppa… rimembranze… evenienze…coincidenze… E poi, dalla farsa della prima di gennaio, quando i tronfi giornali del nord parlavano di campionato riaperto, è stato tutto un crescendo di sopite pulsioni ad ogni record frantumato, passando per la pagliacciata dei punti restituiti ai ladri bianconeri al passo falso continuato di questo mese oramai concluso, coppa campioni compresa. Ma poi, a chiusura del cerchio, dopo lo stesso gol allo stesso minuto nella stessa porta con lo stesso cross dalla stessa fascia della stessa praticamente data di 5 anni prima, cioè da scorsa domenica sera … si è insinuato LUI.

LUI è quel ragazzo di 17 anni che a conclusione di quell’epitaffio del novembre 2020 scrisse: “Perché quell’adulto sono stato io”. E, in questo incredibile ribaltamento di ruoli, prospettive e sensazioni, cose che come puoi non dico spiegare ma semplicemente vagamente provare a descrivere ad un qualunque altro essere umano se neanche tu stesso riesci a padroneggiarle, quelle emozioni (inerpicandoti sulla tremenda distinzione tra codeste ultime e le sensazioni dell’istante, ma ferme e quasi d’acciaio incastonate per sempre nello stomaco), quello scendere in questi giorni all’alba e guidare verso la fatica e contare la bandiera e lo striscione in più, osservando il cielo senza una cazzo di nube una cazza qualunque da nessuna parte, avviluppato in un azzurro che lui, quello del cielo, era lui che faceva da pendant a sciarpe, stendardi e quale che fosse oggetto, e la musica in macchina, e le lacrime. Bum! Vedi, mi sono avvitato, ho perso il filo ed il fiato, solo a rievocare mi sperdo nei brividi del fato.

Dicevo: LUI mi ha parlato. un monologo tracimante a tratti straziante emotivamente irripetibile.

Attaccando così:

te l’ho già detto che quando il Napoli ha vinto l’ultimo scudetto ero ancora un liceale minorenne ed oggi, stravolto in una giravolta lunga un terzo di secolo dentro la quale ci è passata ogni cosa, il presente il futuro ed il passato, son diventato un ultracinquantenne?

te l’ho già detto che quando il Napoli ha vinto l’ultimo scudetto mio padre era più piccolo del me di adesso e che adesso, ma proprio adesso ora, oggi, il 29 aprile del 1994, quando l’età di mio padre si sovrapponeva perfettamente a quella di me cinquantenne e mezzo ora, lo accompagnai a Civitavecchia ad operarsi di ernia e la sera, appena rientrati a casa, si ruppe il braccetto della Tipo che avevo guidato per 600 chilometri a 120 all’ora sull’autostrada?

te l’ho già detto che quando il Napoli ha vinto l’ultimo scudetto, ma proprio nell’esatto momento, cioè proprio esattamente oggi, il 29 aprile del 1990, esattamente alle 17.45, erano due anni esatti dal quel 29 aprile del 1988 in cui, alla stessa ora e minuto, mia madre mi disse che era malata e che non aveva tanto paura di morire, quanto di soffrire?

te l’ho già detto che quando il Napoli ha vinto l’ultimo scudetto Senna stava per vincere il mondiale di Formula 1 in faccia a Prost sulla Ferrari, Ayrton odiato da tutta Italia e che poi, proprio due giorni dopo quel 29 aprile 1994 suddetto, quello di me e papà con la mia età di oggi di ritorno da Civitavecchia, Senna sarebbe morto in Italia per diventare leggenda anche oltre la sua stratosferica esistenza terrena?

te l’ho già detto che quando il Napoli ha vinto l’ultimo scudetto non esisteva il cellulare e dovevi usare il gettone per telefonare da strada, e girare la rotellina col dito per chiamare da casa ricordandoti il prefisso se chiamavi fuori provincia?

te l’ho già detto che quando il Napoli ha vinto l’ultimo scudetto il computer era uno scatolone di 50 chili a 64 kb che serviva per giocare a mario bros ed arcade o a golf sul soppalco in quattro di noi a fare i fumenti e che internet era assai lì da venire e che questa cosa che sto scrivendo adesso esposta alla mercé del mondo a qualunque latitudine non sarebbe mai potuta uscire dalle pagine di un diario di casa scritto con la penna bic che se la mettevi sottosopra scoppiava e tracimava l’inchiostro e dovevi buttare tutto nel cesso?

te l’ho già detto che quando il Napoli ha vinto l’ultimo scudetto, parlando di diari e di scrittura, non avevi cominciato ancora il racconto della tua vita che va avanti da 24 volumi e 11.154 giorni (compreso oggi) e che le storie che ti piaceva scrivere le vergavi sui diari di scuola o sulle agende che mamma e papà ti regalavano a fine anno e infatti fu proprio su una di queste agende che descrivesti con una perfezione esaltante e coinvolgente – tanto per tornare al tifo azzurro – l’altro scudetto, cioè il primo, resoconto che meritoriamente è finito anch’esso quissù?

te l’ho già detto che quando il Napoli ha vinto l’ultimo scudetto le foto si scattavano su pellicola e se sbagliavi eri fregato e te ne accorgevi solamente dopo averle sviluppate (dal fotografo intrighesso) ma, e che, se si apriva per errore la macchinetta il rullino era bruciato ed ogni fotogramma veniva cancellato?

te l’ho già detto che quando il Napoli ha vinto l’ultimo scudetto la musica si comprava in un negozio e che dovevi prendere la metropolitana per spostarti a chiaia o il motorino per arrivare sul vomero (pedalando in salita perché il boxer non ce la faceva, specie se eravamo in due) e dopo aver scartabellato la confezione di plastica trasparente della cassetta (che se ti andava di culo costava 16.000 lire) la si ascoltava nel mangianastri della radio, una canzone alla volta in rigoroso ordine sequenziale, e che se poi quel fottuto mangianastri non funzionava più in rewind e volevi riascoltarla dovevi girarla ed andare avanti oppure farlo manualmente infizzando la penna nel buco della cassetta e vorticarla con un frenetico gioco di dita?

te l’ho già detto che quando il Napoli ha vinto l’ultimo scudetto esistevano solo 16 tasti sul telecomando perché i canali nazionali erano meno di 10 e se volevi vedere un film o ti piazzavi davanti allo schermo a quell’ora precisa disdicendo tutti i tuoi impegni (che non avevi perché dove cazzo volevi andare, dopo la scuola ed i compiti, la sera a 17 anni, e poi mica tenevi l’oggettaccio che ogni 3 secondi trilla squilla e ti appa l’intera mappatura dei testicoli) o dovevi sperare che il videoregistratore (se ce l’avevi) era stato ben programmato ed il nastro della cassetta non si fosse incastrato o smagnetizzato perché stavi sovrapponendo il tutto al filmaccio porno che per un estremo miracolo avevano dato la notte del sabato precedente su qualche canalaccio locale ed era l’unico modo, ai tempi, per vedere una pucchiacca o un capezzolo, a parte i giornalacci che compravi di soppiatto in edicole malfamate facendo la conta con gli amici per stabilire chi dovesse sottoporsi al supplizio di andare dall’edicolante a farsi guardare storto manco fossi un irrimediabile pervertito sessuale, che poi quello non se ne fotteva un cazzo di te e delle seghe che dovevi farti, gli bastava che cacciassi i soldi e ti levassi rapido dai coglioni con la tua aria da pudico imbranato?

te l’ho già detto che quando il Napoli ha vinto l’ultimo scudetto Marco Pantani non aveva ancora vinto il giro d’ Italia – intendo neanche quello dei dilettanti?

te l’ho già detto che quando il Napoli ha vinto l’ultimo scudetto Ivan Lendl se la giocava ancora a Wimbledon contro Edberg e Becker?

te l’ho già detto che quando il Napoli ha vinto l’ultimo scudetto Alberto Tomba era dato per fallito dopo due anni di merda seguiti agli ori alle Olimpiadi di Calgary?

te l’ho già detto che quando il Napoli ha vinto l’ultimo scudetto “non ho una lira” era un’espressione assolutamente sensata (per quanto spesso non veritiera) e che con l’equivalente dei 100 robi di adesso ti facevi una vacanza estiva intera girando in interrail?

te l’ho già detto che quando il Napoli ha vinto l’ultimo scudetto la Phonola Caserta non aveva ancora vinto il campionato malgrado Oscar Esposito Gentile e Dell’Agnello, e che poi sarebbe arrivato Shackleford che io chiamavo Sciaccalaccabù per citare un divertissement di Prince in Housequake?

te l’ho già detto che quando il Napoli ha vinto l’ultimo scudetto qui a Napoli aspettavamo con ansia il nuovo film di Troisi, il nuovo libro di De Crescenzo, il nuovo disco di Pino Daniele, la nuova intervista di Gianni Minà, e che oggi sono tutti regolarmente amaramente di là?

te l’ho già detto che quando il Napoli ha vinto l’ultimo scudetto non avevo ancora percorso nemmanco uno dei circa 500.000 ad oggi chilometri alla guida di una vettura da pendolare di sventura, e non avevo mai volato fino al punto di decidere terrorizzato di non volere volare più, sancendo poeticamente la presa di posizione (da fermo, a terra) in uno dei miei aforismi più circostanziati veritieri e lapidari “volando sono atterrito, commosso e grato sono atterrato“?

te l’ho già detto che quando il Napoli ha vinto l’ultimo scudetto, di là dall’adriatico esisteva una nazione chiamata Jugoslavia dove ci persi un ciuccio in un’estate di millenni fa, e di là dal mondo uno spauracchio chiamata Urss che poi il vero spauracchio era quell’altro?

te l’ho già detto che quando il Napoli ha vinto l’ultimo scudetto Dalla, Battiato, Battisti, Freddie Mercury, David Bowie e il Principe di Minneapolis erano tutti ancora lì a farti sognare mentre registravano in studio il loro nuovo album?

te l’ho già detto che quando il Napoli ha vinto l’ultimo scudetto Stanley Kubrick, Woody Allen, Martin Scorsese, e Gabriele Salvatores, o te li vedevi al cinema o dovevi aspettare anni, se e quando li passavano in tv, altro che pay, youtube, streaming e tutte le altre misteriose eternazioni visuali e visionarie della rete che ci imprigiona tutti?

te l’ho già detto che quando il Napoli ha vinto l’ultimo scudetto vivevo ancora insieme a sorella e fratello maggiore mentre il piccolino era di stanza a Calambrone, ed oggi il maggiore e la maggiore son 4 volte genitori ed il piccolino è tornato con me alla casa del padre e qui dorme in un’urna sopra il comodino?

te l’ho già detto che quando il Napoli ha vinto l’ultimo scudetto la domenica mangiavo a casa della nonna prima dell’inizio di tutte le partite in contemporanea alla radio alle 15, perché in tv non le trasmettevano manco per il cazzo e poi dovevi aspettare 90° minuto per vedere a stento i gol e provare a capire se avevi meritato, demeritato, giocato bene, o male, o realmente giocato e che non fosse tutta fantasia ed invenzione della tivù, come peraltro spesso era ed è ancora?

te l’ho già detto che quando il Napoli ha vinto l’ultimo scudetto questo enorme moloch che si chiama Vecchioleviatano, e che rappresenta tutto ciò che mi sarebbe sempre piaciuto essere e che – come tale – esiste solo nel mondo virtuale (mondo che all’epoca non esisteva neanche in modo virtuale) e non in quello reale e che però e perciò, nel paradossale mondo reale dell’illusione esistenziale che mi appartiene, è la cosa realmente più bella che ho, questo Vecchioleviatano erano solamente due parole slegate, vecchio come anziano e Leviatano come Hobbes, e non avrebbero mai pensato di unirsi insieme perché nessuno aveva immaginato di poterlo fare?

te l’ho già detto che quando il Napoli ha vinto l’ultimo scudetto Maradona era il mio Capitano?

te l’ho già detto che quando il Napoli ha vinto l’ultimo scudetto non sapevo cosa fosse l’amore e ancora oggi, malgrado ne abbia ricevuto a profusione, più che non saperlo non l’ho ancora precisamente compreso o forse o meglio non ho ancora ben compreso come si possa ricambiare questo grato mistero in modo tanto vero e spontaneo quanto sistematicamente gratuito.

Ecco: LUI parlava, parlava, non la smetteva più. Come anticipato, la sensibile demenza senile mi trattiene dal ricordare tutto. Eppure, una cosa del genere, una persona del genere, una storia del genere: come potevo esimermi dal tenerla nascosta? Proprio oggi, un 29 aprile: una data che come un misterioso incantesimo torna e ritorna come i ritorni di Battistiana memoria? Voglio dire – e chiudo, ma siamo in due a parlare adesso: alla fine, se non si fosse capito, sono tutti morti. Tutte queste storie, questi miti, questi personaggi, queste leggende, queste esistenze, queste anime del mondo di quando il Napoli ha vinto l’ultimo scudetto: sono tutti morti. Ma qui, ora, oggi, 29 aprile 2023, te lo scrivo e te lo detto: il Napoli ha veramente vinto, un terzo di secolo dopo, un terzo scudetto.

Ora puoi commuoverti e piangere di gioia: in fondo, era il tuo unico desiDario.

DIARIO DI UNO SCUDETTO: MENO 3

sono serate un po’ così: di quelle che hai aspettato per 2/3 della tua vita e che però poi a un certo punto non te ne fregava più niente e che però poi, a sorpresa, passato il mezzo secolo di esistenza, ti ritrovi a mezza via tra cuore e fantasia e quando scopri che sono la tua momentanea realtà vera, ti emozionano come non avresti più creduto possibile e ti precipitano in uno stato di euforica adulta adolescenza e pensi solo ad esser grato al fato per averlo riprovato prima di.

12 MARZO DUEMILASEMPRE

non posso ricopiare o fotografare ciò che scrissi due anni fa sul mio diario. potrei anche farlo, forse lui lo farebbe con lo spirito del suo variegato estro artistico, ma io non ce la faccio, e neanche per una sorta di pudore pubblico, tanto questo blog è frequentato da due sole persone – chi ci scrive da circa 20 anni, e chi per caso ci si imbatte (nel mare magnum della rete capita anche questo), passaggio veloce di 20 secondi e via. Però, ho piacere sorridente nel riassumere quel che sul diario scrissi un anno fa, nel primo anniversario del suo congedo da questa terrena esistenza: un sabato di lavoro affrontato con una sorta di superiore pace spirituale a seguito del sogno notturno. Che, durante la visione di una partita nella nostra cucina, arrivava il terremoto. E che, al mio panico associato, lui mi consigliò di … contare. Quella classica, semplice, quasi banale, geniale da pensiero laterale svolazzatura di ingegno e fantasia surreale. Conta – mi disse – tu conti e vai avanti e più crescerà il conto più vicino sarà il momento in cui si approssimerà la fine del movimento che ti arreca tanto spavento. il senso del suo dire fu quello, la musicalità poetica della frase ce l’ho messa io, come omaggio.

Oggi, nel secondo anniversario del suddetto suo congedo terreno, posso dire con sincerità e certezza che mio padre continua ad insegnarmi cose, sebbene a distanza di spazio e di tempo. Come peraltro è accaduto nella maggior parte del tempo della vita in cui fummo insieme a calcare polvere e memorie.

CORTO INTERROTTO

Ci sono alcune canzoni che, per misteriosi motivi, durano meno di quanto dovrebbero: in proporzione alla loro fama, alla loro bellezza, insomma meno di quanto sarebbe giusto ascoltarle – più a lungo e con maggior gusto.
Me ne vengono sempre in mente tre

1) Please, Please, Please Let Me Get What I Want – The Smiths (110 secondi)
2) I’m on Fire – Bruce Springsteen (155 secondi)
3) Knockin’ on Heaven’s Door – Bob Dylan (151 secondi) (che poi per inciso, a parte la vucell’e pucuriell’ del proverbiale nobel, proprio per questo la versione di oltre 5 minuti dei Guns è molto meglio. Tie’)

In 3 non arrivano a 7 minuti.

Mo’ è vero che la brevità è sorella del talento, ma qui si è esagerato, ed è stato un vero peccato.

dice che il tempo passa.
non propriamente.
il tempo è infinito (o più correttamente: illimitato) nella costruzione mentale che un essere vivente può provare a concepire, in quanto elemento portante delle dimensioni dell’universo esistente, finito ma illimitato, secondo l’accezione Einsteiniana dello spazio-tempo-mondo creato, formato e deformato dalle masse e dalle energie che contiene;
e ma che, quello stesso essere vivente, nel conTEMPO, è concettualmente, tecnicamente, materialmente impossibilitato a fare, a concepirlo razionalmente, sensatamente, definitivamente.
Ne deriva che:
il tempo in realtà non passa
che la deriva appartiene esclusivamente all’uomo.
siamo noi che passiamo
passo dopo passo
molto spesso passivamente
appassendo e svanendo
e passando la mano continuamente
– continuativamente –
e non solo quella
ma anche tutto il resto del corpo
finché di colpo
di tempo non ce ne resta più.

noi all’impasse
e lui lì immobile
impassibile
impassato
intrapassabile

(non metto il punto)

Le parole dette nascondono una sola, grande, inconfutabile verità: espressa e manifesta in tutte le altre parole, quelle non dette.
Quando succede che i morti ti siano più di compagnia dei vivi, diventa quasi sensato assumere per dato quel paradosso che forse tale non è.

Troppo dentro e fin oltre l’umano per essere condiviso da un altro essere Umano.

TU  (01 gennaio 2022)

Tu ti devi mettere in testa

che tutti i tuoi lamenti e le tue contraddizioni
che tutte le tue presuntuose autocelebrazioni
che tutte le tue monotone noiose ripetizioni

tu devi metterti in testa

che tutti i tuoi cambi di umore
che tutti i tuoi slanci di immotivato amore
che tutte le tue speranze illusorie
che tutti i tuoi rovesciamenti del gioco degli opposti

tu ti devi mettere in testa

che tutte le fottute cose che pensi
che tutte le fottute cose che fai o non fai
che dici o non dici
i tuoi silenzi o i tuoi malumori o i tuoi tormenti
o recitare il gioco dei vincenti o dei perdenti

tu ti devi mettere in testa

che tutto questo sei tu
e ti devi mettere in testa che non cambierai mai
o non più

e tu devi metterti in testa

che la festa è tutta qui
e che tutto questo lo devi accettare

tu ti devi mettere in testa che tutto quello che di giusto o sbagliato
tu possa pensare di te stesso, cambiando continuamente giudizio e capoverso

tu devi metterti in testa che va bene così

e ti devi mettere in testa che comunque sia lo devi accettare
ed in ultimo, perché potrei continuare in modo sterminato
e sterminare le tue palle, come tu fai con me
con tutto ciò che penso di te, che pensi di te

tu ti devi mettere in testa

che se anche non accetterai di mettertelo in testa
anche questo non accettarlo farà parte del tuo modo di essere
di quello che sei
che non cambierà mai,
o non più

perché questo sei tu

e quindi anche se deciderai di non mettertelo in testa
devi accettare che questa rifiuto fa parte semplicemente
del tutto che tu sei, e che dal tuo cerchio non ci esci mai
e quindi anche se deciderai di non volertelo mettere nella testa
in realtà ci sta già, ci sei già.

e quindi tu ti devi mettere in testa
tu in testa
e dietro il tutto tanto o poco che resta.
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…e quel tutto, tanto o poco che sia, è molto semplice da percorrere come via

fare il bilancio: pesa
fare i piani: stanca

quindi non cambio una virgola, forse due, di quanto scritto 365 giorni fa: inizio e fine coincidono, devono.
perché questo è il peso del mondo che stanca,
di stanza dentro.

E tu, hai tu forse paura del buio?
Allora stacca la mano dall’aria che contrasta quel peso d’immondo
e intreccia la mia, un’ultima volta, per un secondo.

Buon anno, Vecchioleviatano.

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