Category: VECCHIOLEVIATANO


ESSERE FRANCO

(Vivido, molto vivido e preciso: non il mio solito sogno confuso, slabbrato, catastrofico, fuori fuoco, privo di margini, confini, nitidezza e nettezza. Lì, nella cucina, sul tavolo sgombro: un cellulare dentro una custodia di pezza color arancione. Ho pensato fosse di mio padre: non essendo il mio, di chi altri? Che quindi lui fosse effettivamente presente in casa, che fosse tornato? Era così: apparendo dal corridoio ed entrando nella stanza e sedendosi intorno a quello stesso tavolo, attraversato di sbieco dalla luce solare pomeridiana di una primavera alle porte, mi confortava della sua presenza rendendomi all’istante contento, al punto da chiedergli come prima cosa: stai andando via o resti qui con me? Mi rispondeva lucido che sarebbe restato. Poi però, un po’ confuso come negli ultimi anni, mi chiedeva cose – per me – concettualmente slegate e casuali: di zio, della cena, ed io – conscio del suo stato – lo tranquillizzavo rispondendogli in modo precisamente vago. Mi preoccupavo: e se durante la notte avesse avuto bisogno di aiuto? Ne sarei stato capace? Ma in fondo sì, e in fondo perché allarmarsi anzitempo? Eravamo lì, eravamo insieme, dopo tanto tempo, per un’ennesima – più che un’ultima – volta. Tanto bastava: era bello così).

Poche ore dopo, da sveglio (“i’m wide-awake/i’m not sleeping”) ho alzato la testa dalla mia postazione di lavoro guardando spontaneamente verso il televisore nella grande sala d’attesa. E lì, in sovraimpressione, c’era il lancio di un’ultima ora – assai parallelo a quello della famosa pomeridiana del 25 novembre: perché, come allora, sono rimasto impietrito per 5 secondi leggendo quelle parole prive di senso, e spontaneamente mi è venuto di pronunciare un “noooo” ad alta voce; ma stavolta, a differenza di allora, la sala era piena, e non potevo piangere da fermo, lì, al pc, tra caos, genti, colleghi e così, come un automa, mi sono discretamente alzato, ho attraversato il corridoio interno che mi separava dal bagno della diagnostica, e quindi, in un anonimo mattino del 18 di maggio, come un bambino smarrito, ho cominciato a singhiozzare senza freni, da solo.

E’ passato meno di un mese dalla morte di Milva, e da quello svolazzo a lei dedicato dove avevo scritto tralaltro queste parole: “…qualche anno dopo, agli inizi degli ’80, io e Sandro avremmo imparato a conoscere ed amare perennemente quello che era davvero l’ispiratore del nostro genitore: Franco Battiato. Ricordo ad esempio il Natale dell’82 che mamma gli regalò “L’arca di Noè” ma prima di impacchettare la musicassetta la fece ascoltare ad entrambi”.

Sì, perché la costante iconografia che ho di Battiato, è questa intima connessione con le cose di casa, con i momenti speciali, con gli intrecci insondabili di mistiche parole che mio padre cantava, che noi imparavamo a memoria senza capirne il significato, ammesso che oggi invece. E, in quell’irripetibile ed indimenticabile periodo degli anni ’80, tutto tracima e si moltiplica ed imprime con danza divertita e tribale le visioni di bambino che mi porterò dietro, finché la mia memoria reggerà. Perché l’estate su una spiaggia solitaria è oramai identificata con la Torretta di Seiano; perchè la visuale dal Moon Valley di questo scenario non potrebbe trovare altra espressione umana che quella di No Time No Space. E perché potrei stare qui ad evocare mille altri perché, per ognuna di quelle canzoni che mi hanno cresciuto, e che d’istinto identificano un passaggio di consegne generazionali forte come le radici, all’interno di una famiglia, tra un padre ed un figlio, che circolarmente si interrompono e si chiudono su se stesse, recidendo e postulando ad un altrove il senso della perfezione, per rinascere e fecondare un domani od un domai.

Ma c’è una scena, anzi tre, che citerò a cesura sulla carta ingiallita dalle lacrime del mio libro dei ricordi.

Prima scena: il video amatoriale da me girato in occasione del matrimonio di mia sorella dove in sottofondo, nella scena iniziale dei preparativi casalinghi tra parentame di ogni ottima risma, a sottofondo musicale, assai fondo quasi per discrezione più che per imperizia tecnologica di un quarto di secolo fa, si sente Battiato cantare “Strani Giorni“.

Seconda scena che si collega alla prima: mio padre giù nel suo studio, rimasto solo dopo la morte di mamma. L’ascolto incessante, straziante, dell’Oceano di silenzio. L’ultima canzone di Fisiognomica, che io corsi – come fuga disperata – a comprare il 30 aprile del 1988, esattamente il giorno dopo aver saputo della malattia di chi mi mise al mondo, dalle sue parole definitive e finali. Quell’album, nella mia testa, raccorda il periodo più atroce della storia di una famiglia, ancora al suo nucleo completo per pochi residui mesi. E quando dopo tutto finì, questa immagine di mio padre che assorbiva, sublimava, trascendeva il suo dolore letteralmente inconsolabile ascoltando quella canzone si è traficcata nella mia anima in modo lancinante. Ecco perché questa seconda scena è collegata alla prima: perché, 8 anni dopo l’88, durante il matrimonio del ’96, quella fu la volta che vidi mio padre veramente felice da che lutto perenne ebbe luogo. Ed ecco perché musicai la scena di casa prematrimoniale con Strani Giorni. Era una mia verità banale ed intima, stupida ed insignificante. Ma quella sera, dopo il matrimonio, mi accadde una cosa talmente ugualmente strana e trascendentale da spingermi tra le braccia di mio padre in lacrime. Anche questa scena, trasformata poi in una mia poesia, continua a trafiggere il mio spirito, e di questo forse un giorno tornerò a scrivere – non è questo il tempo né lo spazio.

Ultima scena, la terza – la devo a me stesso: a quel fanciullo di quei meravigliosi anni ’80, quello di cui ho parlato nello scritto epocale in cui ci siamo lasciati per sempre. Discoring, La Voce del Padrone che frantuma ogni record, Franco Battiato che agita la sua bandiera e canta – in bianco e nero, e da sotto quella piccola tv, il fanciullo ipnotizzato guardava. Era molto elementare ed icastica la sua immaginazione visuale della realtà, e pertanto ai suoi occhi (alle sue orecchie) quella frase suonava male, e anzi: suonava proprio come vedeva: di un uomo che sventola una bandiera bianca, dal che ne derivava – per sconoscenza del verbo medesimo: “sul ponte svento la bandiera bianca”. Perchè “sventola bandiera bianca” era insensato: la bandiera mica sventolava da sola? c’era un uomo che parlava indubbiamente in prima persona, con la bandiera in mano. Pertanto: sul ponte svento la bandiera bianca. Fino a ieri, ognuna delle mille volte in cui l’ho cantata, l’ho pronunciata esattamente così, ridendomi amaramente, dolcemente, indissolubilmente, francamente dentro.

Ora non più: grato a Franco Battiato per l’oceano di emozioni e di legami sentimentali che mi ha donato, da oggi, travolto e sconquassato, finito il sogno ed essendo ben sveglio, da oggi mi arrendo e dentro me sventola bandiera bianca.

(A) MIO PADRE

Mi piacerebbe che esistesse la favoletta bella dell’aldilà, anche a costo di finire io – sicuro – all’inferno perenne, in cambio di saperti finalmente di nuovo insieme alle due persone che più hai amato.

Ai piani superiori, ovvio.

Salutamele.

(20 anni fa scrissi questo. Non cambierei una parola.)

 

MIO PADRE

 

L’aria è ferma

ed oggi è maggio.

Un fatuo pomeriggio

sospeso ed irreale

dall’unico rumore

di un placido irradiarsi

dei mistici solari

sul fianco orizzontale della casa.

La brezza inesistente

si espande lungo stanze e corridoi.

Mi muovo compunto

diacronico ed inerme

piacevole coscienza

dei propri movimenti nello spazio.

Niente è pesante, niente è angusto.

Temevo che l’estate

spazzasse via la grandine

ed i crepuscolari tramonti anticipati.

Invece, tutto è lieve

e culla dolcemente

un mare di visioni non forzate.

Mio padre ondeggia un libro

– antiche divisioni –

disteso sul divano.

Osservo i suoi occhi miopi

e la nuca imbiancata.

Questi muri, in altri tempi,

ed altre suggestioni

mitigavano le risate e le parole di una famiglia.

Adesso siamo noi due.

Domani non so.

Leggevo il suo pensiero,

ed ho aperto le tende

per dare più colore

alle sue pagine sfiorate.

Egli mi ha ringraziato

con soave distrazione.

Volersi e darsi il bene

non è obbligo di sangue

è cosa che assomiglia

al viaggio dentro l’anima.

Nell’ultimo mi si confessò

discreto, come sempre

riservato con pudore

come a non voler colpevolizzare la vita.

Un’innocenza tanto candida quanto spiazzante

da non darmi il coraggio di infierire, di profferire verbo.

Ne verserò di lacrime, sarò ancora della partita

quando lui cesserà.

La consapevolezza è una circostanza dura

bisogna fronteggiare la paura

per esserne all’altezza.

Ho scelto così, con estrema perentorietà.

Volergli bene, e tenercelo nascosto a vicenda.

Sono i rimpianti della vita, della casualità.

Forse agitai alcuni fogli

e spedii qualche sguardo.

Ma non bastò al riguardo

e scesero dal cielo neve e foglie.

A volte l’incantesimo

ti prende per mano e poi svanisce

lasciandoti nel bel mezzo di un’emozione

o di un freddo acuminato.

Questo è il mio testamento di dolcezza e di affetto.

Nessun suono, nessun effetto speciale.

Ti voglio bene, te ne ho sempre voluto, e non lo saprai mai.

Responsabilmente, mi contrarrò nel dolore rileggendolo.

Quando non ci saranno più tende da aprire

né pagine di libro da schiarire

capelli bianchi da osservare

e mani che modellavano la creta.

Un’intenzione vale maggiormente.

La mia anima stracciata si schernisce.

Ha avuto un eccellente maestro.

Di più.

Un genitore degno e silenzioso.

Di più.

Mio padre.

 

– Vecchioleviatano 2001

Oggi, data palindroma: 12022021. L’altra volta che ciò accadde (negando l’esistenza del 2020 per motivi che non voglio neanche) risale al 21022012. Sono trascorsi esattamente + 9 anni – 9 giorni. Per un totale di 3279 giorni. Che poi, se sommiamo 3+2+7+9, arriviamo al 21, l’anno attuale, ed alle 2 cifre basiche di queste palindromiche calendaristiche, l’1 ed il 2. Ma la domanda è: voi dove eravate il 21-02-2012? io, per me, lo so. E non solo a causa del mio personalissimo perpetuo calen-diario a consultazione. Ma perché c’è addirittura il riflesso filmato. La realtà romanzesca del Numero è Tutto.

Ecce Pater

“Si tratta di far si’ che la natura riprenda il suo corso e di rispettare il diritto alla morte cosi’ come si deve rispettare quello alla vita: interrompere l’alimentazione artificiale a Eluana non e’ la ‘consumazione di una vita’ ma far riprendere un percorso naturale che e’ stato interrotto non al momento dell’incidente che ridusse in coma mia figlia, ma quando furono adottati i protocolli di rianimazione che hanno portato Eluana allo stato che conosciamo: il coma vegetativo permanente. Questo e’ innaturale. Lo stato in cui versa e’ stato creato clinicamente, contro natura. Da questa condizione ne deve uscire in modo altrettanto clinico seguendo, comunque, tutti i protocolli in rispetto della sua dignita’ umana”
“Io non voglio insegnare niente a Bagnasco – ha precisato papà Beppino – perché come tutte le persone ha il diritto di esprimere la propria posizione che, in questo caso, ricalca il magistero della Chiesa ma la Chiesa rispetti le volonta’ di Eluana”.

Questo, nella filosofia Leviatana, è ciò che più si avvicina al concetto
di Santo Padre

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