Brani scelti: ARTHUR SCHOPENHAUER, Parerga e paralipomena, 1851.

Invece di essere sempre ed esclusivamente preoccupati per i progetti e i pensieri dell’avvenire, o per contro di abbandonarci alla nostalgia del passato, non dovremmo mai dimenticare che il presente è l’unica cosa reale e l’unica certa. […] Noi consumiamo i nostri giorni belli, senza badarvi, e soltanto quando giungono quelli brutti, desideriamo di riaverli. Lasciamo passare dinanzi a noi, senza goderle, e con volto infastidito, migliaia di ore serene e piacevoli, per poi sospirarle con vana nostalgia, quando giungono i tempi foschi.

In luogo di tutto ciò dovremmo tenere in onore ogni presente sopportabile, anche quello banale, che lasciamo ora trascorrere con tanta indifferenza e cerchiamo anzi di affrettare impazienti, e dovremmo tener per fermo che questo presente sta appunto ora avviandosi a quella apoteosi del passato, dove continuerà a essere conservato dalla memoria nell’alone di luce dell’immortalità, per presentarsi poi come un oggetto della nostra intima nostalgia, quando la memoria un giorno, soprattutto nell’ora cattiva, solleverà il sipario. […]

Talvolta noi crediamo di sentire la nostalgia di un luogo lontano, mentre in verità abbiamo nostalgia del tempo che laggiù abbiamo trascorso, quando eravamo più giovani e più freschi. In tal caso il tempo ci inganna, prendendo la maschera dello spazio. Se noi viaggiamo verso quel luogo potremo convincerci dell’inganno.

 

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SULLE MIE RIFLESSIONI SUL CONCETTO

Ciò che l’irresoluta stoltezza dell’intelletto umano non riesce a comprendere – ma con un  dato naturale che ne giustifica l’autoindulgenza assolutoria – è che questa incapacità di vivere nel presente, nell’attimo, nell’assolutizzazione del momento che è qui, adesso – unificando l’appercezione trascendentale dell’io nelle dimensioni essenziali di spazio e tempo – questa incapacità è propriamente un dato di natura dell’essere umano, è iscritto nel suo dna da quando esiste la coscienza di sé e della propria mortalità, è il dato di specie esattamente come ogni specie vivente ne ha uno – certificato da migliaia di anni di evoluzione NATURALE. Gli animali vivono in uno stato di coscienza istintuale, vivono nell’attuale perché non hanno contezza del concetto di morte, o meglio: vivono per protrarre la specie e combattono per sfuggire le insidie, i pericoli e le minacce che si parano lungo il cammino tracciato da questa loro missione di natura. Questo vale per ogni singola forma di vita di questo pianeta. L’essere umano, in ciò, è l’unica specie – la sola specie da sempre – che può: PENSARE-COMPRENDERE-AFFERMARE CONSAPEVOLMENTE: io oggi ci sono, un domani non ci sarò più. E questo pensiero, questo concetto, questa frase, una volta realmente interiorizzata crea un tale stravolgimento emotivo e razionale da alterare completamente i canoni istintuali lungo i quali la specie si era incanalata, ab ovo. Il concetto della morte è talmente possente, totalmente inconcepibile – letteralmente incomprensibile – che altera i processi mentali dell’uomo, di qualunque uomo perché: come può essere formalizzato, sintetizzato, kantianamente categorizzato un concetto che, incredibilmente, ci parla della sola esperienza universale che: contraddistingue ogni essere vivente di ogni specie e che, nel contempo, è l’unica esperienza universale di cui: non avremo esperienza nel ricordo e non potremo mai descrivere.

Questo cortocircuito, le cui implicazioni filosofiche, esistenziali, materiali, psicologiche ed emotive sono proprie solamente all’uomo, non potendo raggiungere vette così vertiginose in nessuna delle altre specie viventi che possano eventualmente scontare in qualche simulacro di loro coscienza pur inconscia il significato reale di lotta per la sopravvivenza (cioè il destino finale della morte), alterando profondamente il senso che l’uomo attribuisce al concetto di tempo, ci riconducono naturalmente a quella impossibilità da cui è partito il ragionamento: l’impossibilità di vivere il presente, l’attimo. Perché ogni attimo è già qualcosa che non c’è più, è passato; e per ogni attimo passato, la disperata speranza umana si proietta in un futuro, quanto vicino o lontano sia, per poter prolungare la propria coscienza. Si pretenderebbe di catturare e fissare nel tempo del momento attuale, di cristallizzare perenne l’attimo di adesso di felicità, ma l’uomo, con la tara della morte che al contempo esalta e svilisce un momento di gioia, sa che quel momento passerà, durerà un battito di ciglia. Ecco perché, quasi paradossalmente, una gioia è più profonda, e più intensa, se riferita ad un momento già vissuto, passato e fissato nella memoria del tempo trascorso (o di un luogo vissuto – laddove spazio e tempo passato giustamente si identificano ed unificano nel ricordo) ovvero in un momento/luogo posto nel futuro, per dare continuità a quella disperata speranza di sopravanzare per una volta ancora la sconfitta che ne verrà dalla morte.
Se ci si pensa: solo quando si nasce, e solamente per i primi anni di vita, l’assenza di una concezione temporalizzata dell’esistenza e la non conoscenza del concetto di morte ci permette di vivere il presente e nel presente, nel senso letterale: qualcuno ricorda i ricordi che aveva a due anni? Qualcuno può alzare la mano e citare i suoi progetti per il futuro breve a tre anni? Nell’immediata infanzia si vive nell’adesso, si è calati per ore ed ore e giorni ed anni in un costante presente, non c’è bisogno di ricordi, e l’apprendimento avviene come istintuale presa-visione di una reiterazione di gesti e parole altrui; e non c’è bisogno di magnificare un futuro qualsiasi. E’ lì, quando interviene il processo di temporarizzazione della mente e la contigua calata della fattispecie della morte (fatto di specie – appunto) che il tempo presente si spezza e breccia in due segmenti, il passato ed il futuro, senza punti di contatto di pura coscienza presente, se non nell’accavvallamento di quei due segmenti in un dato punto spazio-temporale della nostra soggettività intrinseca ed ineludibile annientata dal supremo dato di natura: la finitudine.

In sintesi: l’incapacità di vivere il presente, non è un limite dell’uomo. E’ un suo dato di natura. Come il dato fisico dell’impossibilità dei pesci di vivere fuori dall’acqua, o dei lombrichi di volare, con la sola differenza, estensione, che nell’uomo – oltre al dato fisico dell’impossibilità di volare o di respirare nell’acqua, vi è una impossibilità mentale, questa appena descritta. Ma si tratta di una cosa naturale, che compendia e sussume i tre capisaldi fondamentali di tutta la vicenda umana, di cui dunque non dovremmo farcene un cruccio, o trasformarla in motivo di rimpianto. E’ solo parte integrante dell’immeritato castigo, della tragedia universale di essere nati umani. Tutto qui.

VECCHIOLEVIATANO 2019