RICORDO-RIFLESSIONI-SETTEMBRE 2010

“il ricordo, che non è ciò che non si è più, ma ciò che non si è mai stati il coraggio di essere” – diario del 23 ottobre 2004

Rileggendo questa frase, ho riflettuto sul suo significato: sull’idea, cioè, di voltarsi indietro e guardare alla vita trascorsa come a qualcosa che sistematicamente ci appare rimpianto, e di dare preponderanza a ciò che non è accaduto, a ciò che avrebbe potuto essere e non è stato, alle occasioni perdute, e perdute, o sciupate, o smarrite o negate essenzialmente a causa nostra, cioè attribuire con poca indulgenza quelle mancanze ai nostri propri limiti (materiali, mentali, di volontà, di coraggio appunto).
In effetti, anche quando si ripensa al passato in chiave nostalgica ma tutto sommato positiva, un bel ricordo, un bel momento, un pensiero che suscita il sorriso sulle labbra, l’atto stesso – attuale – di voltarsi indietro implica che c’è qualcosa in questo momento – nel presente – che ci spinge a fermarci ed a guardarci alle spalle, come se l’approdo odierno non fosse stato quello auspicato (nel qual caso non avremmo avuto l’esigenza di voltarci indietro), come se un bel pensiero di un momento andato fosse preferibile ad un pensiero attuale di questo preciso momento.
Da questo, mi sono spinto ad una riflessione più generale sul processo della interpretazione, una interpretazione non più contestuale e relativa quindi al significato della frase in sé, ma direi “ontologica” e formale, cioè relativa proprio ai meccanismi che ci spingono ad interpretare determinate cose ed al come ed al perché di quegli stessi processi identificativi: se vogliamo, una riflessione sui processi interpretativi dell’arte in generale (ricordo – tautologia! – che una considerazione del genere la feci già anni fa sulla scia di una frase sulle “rose”, fatta da Cristiano e che generò una mia riflessione scritta. Così come le altre molteplici riflessioni nate da uno spunto – una scena di un film, una frase ascoltata, o detta istintivamente, e tutti i pensieri nati “sotto fumo” in generale), processi in cui si attribuisce, con la riflessione razionale, un significato ad una frase o un concetto, così esteso da porsi l’interrogativo seguente: se quella riflessione fosse già presente in noi, nel profondo, nell’inconscio ed alla fine sia venuta fuori mirabilmente e miracolosamente esemplificata da una frase-spot, o se siamo noi che cerchiamo sempre, per il bisogno di ordine e di logica nelle cose della vita, di dare ex-post un’interpretazione ad una semplice affermazione istintuale.
Per come evidentemente la penso io, entrambe le cose possono avere un senso attendibile e riconosciuto. E’ vero ad esempio che tanti pensieri vivono nel nostro inconscio e che, essendo noi personalità a 360 gradi, per ciò che razionalizziamo nella coscienza e per ciò che si dibatte preciso nel nostro profondo, che è parte di noi anche se non emerge con chiarezza e razionalità ai nostri pensieri, questi stessi definiscono forme magmatiche precise e nostre che talvolta vengono fuori in forma onirica, talvolta si rafforzano attraverso gli esempi della realtà e permangono ad incastonarsi nel profondo inconscio fino a formare un sistema solido ed articolato che trova poi esemplificazione in un pensiero sintetico e calibrato che viene fuori all’improvviso come magma di un cratere al culmine delle forze e degli equilibri che generano l’eruzione.
Ma è anche vero che senza interpretazione a posteriori non esisterebbe l’arte e la letteratura e che siamo noi, con la nostra sensibilità, con la nostra necessità di ritrovare la nostra unicità nel confronto con il mondo esterno, a proiettare spesso su una cosa che è-ciò-che-è, quello che noi, in base a cultura, gusti, sensibilità, o schemi e modalità pratica di ordinamento del (nostro) mondo, riteniamo che sia, che possa essere o voler essere e significare.
Alla fine, al dunque, ho pensato che tutti questi pensieri erano piacevoli, in un certo senso divertenti, stimolanti, un innocuo ma forte passatempo, eppure, come è propria di ogni mia riflessione, la chiusura circolare del ragionamento si è avuta con un paradosso, che in sé riprende l’idea paradossale di un aforisma semplice tout-court (tutti gli aforismi sono un’iperbolica estensione di una breve e limitata porzione di verità ad una superficie di verità apodittica): il paradosso consiste nel ritenere che io fossi d’accordo con quella frase iniziale (“il ricordo, che non è ciò che non si è più, ma ciò che non si è mai stati il coraggio di essere”) più perché mi piace la frase in sé (come gioco, aforisma o provocazione paradossale) che perché la ritenga vera rispetto al mio modo di vedere il mio passato e la mia vita (cioè alla diretta e concreta applicazione di quella frase a me stesso e della mia biografia ), immaginando di aver fatto in ogni momento della vita la scelta più giusta che in quel momento potessi fare, anche in funzione del coraggio che avevo o che non avevo in quel momento, alla volontà, al desiderio o altro.
Una riflessione su una frase, sulla sua interpretazione, in fondo sul passato (una mia frase di 6 anni fa che per un motivo ben preciso – ricollegabile al senso della frase stessa (altro paradosso!) – avevo ripescato in questo momento), e poi sui processi interpretativi, sull’arte e quanto più se ne voglia, ed il tutto per arrivare alla considerazione che quella frase – almeno per ciò che riguarda me, cioè il suo autore – avesse senso perché bella come aforisma, più che vera.
Ed in ciò, in questa riflessione finale che mi ha fatto ridere e commuovere, ho ritrovato il senso che ha per me la scrittura.
La mia, naturalmente.

VECCHIOLEVIATANO 2010