Penso che il linguaggio abbia un codice strutturale profondo e segreto, ma che resti comunque qualcosa di cui l'uomo si è dotato per suo diletto spirito di creazione. A differenza di tutto ciò che ci contorna, che preesisteva a noi e che possiede regole di natura alle quali noi possiamo e dobbiamo semplicemente adeguarci, il linguaggio – nei limiti delle finalità con cui viene speso – non si impicca per forza a regole e circuiti che possano essere tacciati di artificialità, od obbligatorietà. Come – cioè – esponenti lontani e successori secolari delle stirpi geniali che nei millenni lo generarono e codificarono, si dovrebbe rivendicare il diritto di appellarsi ad una illusione. Vale a dire che le sensazioni, le emozioni pure più mie ed irripetibili, che non posseggono un linguaggio esterno e nemmeno uno interno, possano esplodere la gabbia della lingua e possano procedere in una dimensione commotiva opposta a quella strumentalmente segnata dalle cifre della lingua. Ovvero, che sia il linguaggio dei pensieri e dei codici parlati ad assoggettarsi alle sensazioni ed ai moti dell'animo umano, piuttosto che rimanerne rinchiuso in una gabbia di regole e consecutio. Se è vero che le emozioni prescindono dal linguaggio (e prova ne sia che anche gli altri esseri viventi – animali in testa, hanno sensazioni inesprimibili perché prive di linguaggio, ma le hanno), allora io mi illudo di inseguire quel sentiero lastricato di candore, dove le mie parole diventino lo strumento malleabile, adattabile e flessibile di un gioco degli specchi, dove i miei suoni, i miei colori, le mie immagini più profondamente "dentro", ottengano l'omaggio di una fotografia su bianco carta, senza che il codice scritto prenda il sopravvento, ma lasciando che sia l'inarticolato mare di dolore e commozione interiore ad esprimersi come meglio crede, con gli strumenti che ritiene più adatti al frastuono di quella stessa Illusione.
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Le parole dette nascondono una sola, grande, inconfutabile verità: espressa e manifesta in tutte le altre parole, quelle non dette.
Quando succede che i morti ti siano più di compagnia dei vivi, diventa quasi sensato assumere per dato quel paradosso che forse tale non è.
Troppo dentro e fin oltre l’umano per essere condiviso da un altro essere Umano.
che tutti i tuoi lamenti e le tue contraddizioni
che tutte le tue presuntuose autocelebrazioni
che tutte le tue monotone noiose ripetizioni
tu devi metterti in testa
che tutti i tuoi cambi di umore
che tutti i tuoi slanci di immotivato amore
che tutte le tue speranze illusorie
che tutti i tuoi rovesciamenti del gioco degli opposti
tu ti devi mettere in testa
che tutte le fottute cose che pensi
che tutte le fottute cose che fai o non fai
che dici o non dici
i tuoi silenzi o i tuoi malumori o i tuoi tormenti
o recitare il gioco dei vincenti o dei perdenti
tu ti devi mettere in testa
che tutto questo sei tu
e ti devi mettere in testa che non cambierai mai
o non più
e tu devi metterti in testa
che la festa è tutta qui
e che tutto questo lo devi accettare
tu ti devi mettere in testa che tutto quello che di giusto o sbagliato
tu possa pensare di te stesso, cambiando continuamente giudizio e capoverso
tu devi metterti in testa che va bene così
e ti devi mettere in testa che comunque sia lo devi accettare
ed in ultimo, perché potrei continuare in modo sterminato
e sterminare le tue palle, come tu fai con me
con tutto ciò che penso di te, che pensi di te
tu ti devi mettere in testa
che se anche non accetterai di mettertelo in testa
anche questo non accettarlo farà parte del tuo modo di essere
di quello che sei
che non cambierà mai,
o non più
perché questo sei tu
e quindi anche se deciderai di non mettertelo in testa
devi accettare che questa rifiuto fa parte semplicemente
del tutto che tu sei, e che dal tuo cerchio non ci esci mai
e quindi anche se deciderai di non volertelo mettere nella testa
in realtà ci sta già, ci sei già.
e quindi tu ti devi mettere in testa
tu in testa
e dietro il tutto tanto o poco che resta.
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…e quel tutto, tanto o poco che sia, è molto semplice da percorrere come via
fare il bilancio: pesa
fare i piani: stanca
quindi non cambio una virgola, forse due, di quanto scritto 365 giorni fa: inizio e fine coincidono, devono.
perché questo è il peso del mondo che stanca,
di stanza dentro.
E tu, hai tu forse paura del buio?
Allora stacca la mano dall’aria che contrasta quel peso d’immondo
e intreccia la mia, un’ultima volta, per un secondo.