Ieri sera, allo stadio.
Nelle grandi attese di lassù, ho sempre come mio compagno di emozioni da gradinata Bukowski.
Leggo una poesia, un elogio funebre alla più fedele delle macchine.
E’ meravigliosa, dolente, disincantata e commovente.
Così, oggi porto il libro con me in ufficio e lavoro le 3 pagine del testo con angoli e giochi di fotocopie allo scopo di fare uscire l’intera poesia su un solo foglio.
Ci riesco.
Decido di portare con me quel foglio in macchina, di esporlo, di dedicarlo a lei.
Intanto, come non accadeva da mesi, diluvia.
Mi ero ripromesso di lavare la macchina sotto la pioggia, con quell’acqua, non appena fosse caduto giù il cielo.
Sono le 18.10 di venerdì, la settimana è finita.
Ho dei giornali vecchi sotto il sedile. Ne appallottolo i fogli, ne faccio spugnette.
Con una mano reggo l’ombrello, con l’altra strofino la spugna di carta sulla carrozzeria della macchina.
Lo sporco comincia a scrostarsi, e la pioggia porta via le strisce grigie di sudiciume.
Incomincio ad entrare in trance, mi sposto dalle fiancate alla parte posteriore, la targa, i vetri.
Quando la carta appallottolata è oramai un grumo di nero molle, la getto via e ne faccio un’altra.
Vado avanti così per 20 minuti. Nel frattempo, ho dimenticato di reggere l’ombrello sulla mia testa.
Sono tanto bagnato quanto la mia macchina, quanto quella carta appallottolata, consunta e frantumata al suolo.
Allora mi infilo dentro e parto in direzione casa.
Quando sono quasi giunto a destinazione, complice un semaforo rosso, prendo la poesia e comincio a leggerla. Penso contestualmente a quanto sia dolce, ed a dove potrei metterla esposta. Magari sotto il tettuccio interno, o sul vetro. Ad un certo momento, la mia lettura viene distratta da una lucina gialla. Strano, penso: di solito dal rosso si passa direttamente al verde. Cosa c’entra il giallo?
Non era il semaforo.
L’indicatore della benzina da oltre due mesi non funzionava. La lancetta era sotto lo zero, la spia non si accendeva punto, e per decidere quando fare rifornimento mi basavo sul metodo empirico: un tot di chilometri a litro, e raggiunto quel chilometraggio, sosta ai box.
Adesso, dopo una intera estate, al primo diluvio autunnale, la spia torna a funzionare. In questo preciso momento, lì fermo al semaforo, con una poesia in mano che parla di quanto siano sentimentali e fedeli le vecchie vetture, e una macchina per metà pulita e per metà sbigottita. La lancetta dallo zero si impenna lievemente, il serbatoio ha ancora litri. La spia gialla dunque si spegne, torna attivamente a registrare la presenza di gasolio. Infine, lentamente la lancetta si assesta su un quarto di serbatoio (avevo stimato di avere una quantità simile).
Il semaforo è verde.
Parto, completamente stordito ed estasiato da una tale magìa del sentimento meccanico.
Arrivo sotto casa, la strada è un lago. Scendo dalla macchina, salgo le scale, entro in casa, prendo la spugnetta per lavare i piatti, apro un ombrello, scendo nuovamente in strada, e riprendo l’opera di pulizia. Nel frattempo le altre macchine passando alzano ondate di pioggia da terra, che mi investono me impassibile. Io scrosto il nero dalle portiere, dai vetri, dal tetto, dal muso, dai parafanghi, dai fanalini. Forse qualcuno mi osserva rintanato dietro i vetri, la strada è buia e spoglia, a Napoli oggi è festa, ma il vero miracolo è qui. Un passante sul marciapiede: mi crederà pazzo? Ma chi potrebbe mai non esserlo in una situazione simile? Ma chi mai potrebbe vivere una situazione simile? Sono finito dentro un racconto scritto da me sull’acqua con l’acqua. E così vado avanti, per 20 minuti. Decido di fermarmi quando la spugnetta è consumata, un pugno di ciottoli di sabbia. Il mio braccio destro è anchilosato, il polso sinistro che ha retto l’ombrello è dolente.
Rientro a casa più umido di un’anguilla. Mi tolgo i vestiti pesanti fradici, mi faccio una doccia calda. Mangio, sento un amico al telefono, sistemo i video e le foto fatte ieri allo stadio.
Notte quasi, fuori la pioggia è terminata da un po’.
Alzo la persiana, apro la finestra e scatto un paio di foto.
Poi ricopierò qui quella poesia di Bukowski.
La prima doveva essere per lei, la mia.
DISCORSO FUNEBRE
con le vecchie macchine, specie se le compri di seconda
mano e le guidi per molti anni
una storia d’amore è inevitabile:
impari perfino ad
accettare le loro piccole stranezze:
la pompa dell’acqua che perde
le candele che non vanno
il braccetto dell’alimentazione arruginito
il carburatore recalcitrante
il motore che perde olio
l’orologio fermo
il tachimetro immobile e
svariate altre magagne.
impari anche tutti i trucchi per
alimentare la storia d’amore:
come sbattere lo sportellino del cruscotto in modo da farlo stare chiuso, come dare uno schiaffo
a mano aperta al faro anteriore
per farlo accendere, quante volte
schiacciare l’acceleratore e quanto
aspettare prima di toccare l’accensione, e non stai lì a guardare ogni buco di sigaretta
nella tappezzeria e ogni molla
che trapassa i rivestimenti.
la tua macchina è stata
sequestrata e dissequestrata
dalla polizia, è stata multata per diverse mancanze:
tergicristalli rotti
niente frecce, luci dei freni
mancanti, fari posteriori rotti, freni scassati, gas di scarico in eccesso e così via ma nonostante tutto sapevi di essere in buone mani, mai un incidente, la vecchia macchina ti trasportava da un posto all’altro, fedele:
il miracolo del povero.
così quando si è rotta l’ultima volta, quando le valvole hanno molltato, quando i pistoni stanchi si sono crepati, o l’albero a gomito è partito e tu hai venduto la macchina allo sfasciacarrozze – tu quella volta l’hai dovuta guardare che la portavano via appesa lì sul retro del carro attrezzi trascinata come se non avesse anima, le ruote posteriori lisce il lunotto posteriore spaccato e la targa tutta piegata sono state le ultime cose che hai visto, e ti ha fatto male come se una donna che amavi davvero tanto e con cui avevi vissuto anno dopo anno fosse morta e tu adesso non avresti mai più provato
la sua musica
la sua magìa
la sua incredibile
fedeltà
Charles Bukowski