affogare in questo mare di parole che non mi comunicano niente, rileggere miei scritti a caso, cercare un centro di gravità permanente e trovarci solo la gravità di quel momento, l’urgenza di dire cose che non so fino a che punto posso capire adesso, comprendere in futuro, aiutarmi a ritornare nel passato. Poi si innesca un circolo vizioso di pensieri virtuosi che ti prendono per mano, e la mano finisce per prendere un diario di anni fa, molti, parecchi, diciamo 20 e mentre ti rileggi nell’angolo più intimo che hai creato per te, o che lui ti ha imposto di creare, e le imposte di casa sono abbassate perché giunge la notte che non porta consiglio, e perseveri a leggere e non metti una virgola ed i muri si dilatano gli spazi si ampliano e sobbalzi da uno stato d’animo all’altro capisci che questo è, questo il senso, la più dolce della condanna. Dario, non c’è niente da capire. Ma cosa vuoi capire? Ma davvero ti illudi di leggere per capire, per carpire cosa di te, ancora? Tu devi scrivere, cosa ti importa del resto e delle conseguenze? Basta sedersi ed ascoltare. Chiudilo, questo file: vai, vai via, lascia spazio alla musica, che un giorno anche quella cesserà, la luce si spegnerà, e potrai finalmente capire. Non ora: allora.
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