Ripenso al passato e lo vedo come un paradiso, oggi qui a quasi 50 anni: 20, 30 anni fa. Ora so ciò che penso, sto male e non ho grandi aspirazioni (in vero: mai avute) né motivazioni sostenibili per il futuro. Però, se/quando ripenso al passato, ne rivivo e colgo come un sospiro emotivo lo slancio, le scintillanti prospettive, la bellezza del piacere dell’esserci (stato). Eppure, io non ho un ricordo preciso, calibrato, imminente su come realmente vivessi, cosa pensassi interiormente, come essenzialmente la vedessi – l’essere io, allora, nel mio io. E peraltro potrei saperlo, leggerlo, dai miei diari che coprono oltre il 66% di questo viaggio nel tempo all’indietro, il 66% più immediato. Ma il senso non è questo, non è questo il significato del pensiero della felicità che attribuisco al me del passato, e sono certo che se prendessi un diario a caso, un anno a caso, nei ’90, ad inizio di secolo, nei dieci successivi, sono sicuro – lo so, come potrei non saperlo? anche se non posso sapere con certezza come vivessi e cosa pensassi addirittura negli oltremondi dei non detti e non confessati neanche a se stesso- so però con certezza che anche allora pensavo e penavo, soffrivo e mi prosternavo, vivevo alla giornata e mi guardavo dietro rimpiangendo l’eden perduto. La differenza, progressiva, è solo in ciò: che, all’epoca – qualunque si prenda ad esempio – pensavo di avere più tempo davanti a me per rimediare, per correggere le cose sbagliate, i pensieri sbagliati, le ossessioni contorte nell’animo, controverse nei fatti, nelle azioni, nel pensiero, gli errori sistematici e quotidiani, lo stato di insoddisfazione esistenziale, per recuperare il tempo sprecato in divenire. In verità, ogni epoca è stata figlia di se stessa, di me stesso, del modo in cui sono fatto, in cui mi sono evoluto in base a come sono ontologicamente immutabilmente fatto, di come in fondo ciascuno di noi è fatto; ed ogni epoca ha portato con sé e contenuto in sé i medesimi sentimenti, le stesse sofferenze mentali, gli spasmi, le speranze illusorie, i fallimenti, il pensiero avvitato ciclicamente su se stesso, ad interminata spirale. Solo in un preciso momento nel tempo, i circa 21 mesi che hanno preceduto il compimento dei miei 15 anni, io ero consapevole di essere vivo, giovane, libero e felice, in un parola: infinito. Ed ho vissuto come ed in funzione di questa consapevolezza assoluta, perché esistenzialmente vera in me.

Quindi, il senso di queste mie parole, ADESSO, è il seguente (e non mi curo della rispondenza, o del grado di sovrapponibilità, o di discrasia o di distonia con l’altro pezzo danzante di memorabilia di pochi giorni fa, che risaliva al 2004 attraverso il 2010, oh vertigini degli abissi!): quando ripenso a come era bello ed illusoriamente felice il passato, di bello c’è solo una cosa: questo pensiero, questo atto del pensare al passato, il momento del presente in cui mi astraggo e mi distraggo pensando al tempo che fu: non la verità su di esso. Su questa riflessione non ho bisogno di leggere i miei diari, come è vero (tanto è vero) che cominciai a scriverli quasi immediatamente dopo quel periodo precedente i miei 15 anni, quando ero troppo felice ed infinito nell’azione della vita per perdermi e perder tempo nella scrittura, nel ricordo, e nel ricordo della scrittura del ricordo.

Lo so e basta.

VECCHIOLEVIATANO 2020