Adriano
Adriano stancamente sorride
occhio a illuminare, smarrito, impaurito
ha visto crescere un muro di silenzio
e nelle orecchie la calca e le Memorie.
Il punto fisso inchiodato al pavimento
si riflette nell’acciaio del cielo ostacolato
quando il ricordo della musica e del tempo
gli muovono dolore eterno e grato.
Il corpo si consuma lentamente
di una stanchezza che va oltre le sue membra
come a staccarsi da una singola traiettoria
per compararsi con lo spirito del mondo.
Il suo pensiero osserva sbigottito
tutto il clamore sotto un’altra prospettiva
la vita libera e indifesa si rifiuta
di confessare la sua propria autonomia.
E quindi scrive, e il senso è manifesto
quando Parola si trasforma sul suo sguardo
e il movimento circolare degli affanni
per un incanto di un istante si sospende.
Nel tempo della mia vita mortale
altri Maestri si pararon sul cammino
non furon nelle sedi stabilite
e l’immaginazione rende omaggio
per la miseria di due lacrime da solo.
Forzarono le sbarre di falsi sentimenti
false visioni stupide ossessioni
imperativi illogici e integrati
per dare un prezzo ad ogni commozione.
Invece tu tra spigoli quadrati
osasti rievocare quel Sileno
che prese tra gli affetti il suo bicchiere
perché è la Legge che qualifica da sempre
un buon viatico di stanca convivenza.
Adesso quanti possono avvertire
Il tuo evidente monito esemplare?
Io resto qui da naufrago indolente
comunico a fatica ma vedo ancora il mare
rinchiudo le prigioni del mio stomaco
senza magnificare l’analoga condanna.
E c’è vergogna, e c’è disperazione
e un lampo di speranza non si vede
preferirei servire il tuo candore
preferirei insegnare il tuo rispetto.
Ma non si può sporcare di parole
il sogno indifferente che ti assilla
la vita curva con rapida impazienza
e sono certi giorni a non finire mai.
E tu lo sai, scolpito in una mano
Io lo imparai, riflesso in uno specchio
Siamo lontani, non ci vedremo mai
Ti porterò sul mare ti mostrerò il suo odore
Ci avvolgerà il silenzio, dolcissimo Adriano.
“Il vizio di origine della nostra iniziazione rivoluzionaria – nostra, cioè di quelli della mia generazione che si sentirono rivoluzionari – derivò dal trovarci di fronte un vasto schieramento politico e sindacale che agiva di fatto all’interno dei rapporti sociali e della democrazia politica “borghesi”, ma continuando a parlare un linguaggio sovversivo. C’era una sproporzione scandalosa fra le parole e i fatti di quella sinistra “ufficiale”. Non solo: ma poiché gli uomini tengono più alle parole che ai fatti, e a quelle restano più tenacemente fedeli,e dal tradimento di quelle si sentono più intimamente feriti, quando voci autorevoli dentro la sinistra ufficiale azzardavano sortite verbali che provassero a ridurre la distanza fra l’ideologia e la pratica, il loro isolamento si faceva più forte. Era così per la “destra” del PCI, o prima ancora per il PSI e la sua aspirazione governativa, o per il sindacalismo più “riformista” (più riformista che riformatore, del resto). Le burocrazie dirigenti della sinistra storica e i loro capi tenevano in ostaggio la base con la continuità di un linguaggio, ed erano a loro volta ostaggi dell’irriducibilità di quella base a nuove musiche e nuove parole. Questo reciproco sequestro era l’ortodossia. Quando arrivò per una buona parte della nostra generazione il turno di entrare in scena, sospinta da una congiuntura internazionale senza precedenti , lo scandalo morale per la “doppiezza” della sinistra ufficiale, la scissione plateale tra teoria e pratica, si tradusse in una tensione urgente a colmare quel divario dal lato della pratica, dell’azione. Il volontarismo attivistico fu la caratteristica saliente di quel nuovo estremismo giovanile, quando non si lasciò irrigidire dal dogmatismo ideologico. La distanza fra le parole e i fatti – il binario doppio, la simulazione rivoluzionaria e la pratica del quieto convivere – volemmo sanarla rieducando i fatti a corrispondere alle parole, cercando nell’azione la coerenza rinnegata. Questo valeva anche, e anzi a maggior ragione, per la questione della violenza. Il retaggio della violenza popolare, creduta necessaria, perché contrapposta alla violenza di tiranni padroni e sfruttatori, e giusta, perché emancipatrice di una abitudine alla servitù e al gregarismo, della violenza difensiva e della violenza levatrice di una nuova storia e di un uomo nuovo, questo retaggio era più antico e radicato del movimento operaio e del marxismo, e scendeva dal tronco della rivoluzione francese e dai rami del patriottismo risorgimentale e, fin nello stesso Sessantotto, dalla ribellione cattolica al privilegio e al potere. Piuttosto che rimettere in discussione le parole, noi le riprendemmo e le rincarammo, come si raccoglie e si agita più fieramente una bandiera abbandonata nella fuga, e ci addestrammo a corrisponder loro nell’azione. Per molto tempo la nostra verità di rivoluzionari di fronte alla moneta falsa di chi continuava a scrivere la parola rivoluzione sulla targhetta del suo ufficio ma guardandosi bene dal perseguirla nella vita, consistette anche in una mezzo comica mezzo patetica gara all’oltranza delle parole: e se gli altri gridavano Vietnam libero noi gridavamo Vietnam rosso, e se chiedevano il disarmo della polizia in servizio di ordine pubblico (potresti immaginare che alla vigilia della strage di Piazza Fontana si stava per votare questa misura?) noi chiedevamo il fucile agli operai. Era un gioco di quelli che prendono la mano. Le parole sono indulgenti, permettono un’oltranza infinita, al riparo dal passaggio al fatto. Le parole non sono pietre. Ma sono anche esigenti, e perfino esose, e a furia di sentirsi pronunciare e scandire e gridare presentano un loro conto. Le pietre non sono parole – ti rinfacciano a quel punto. E da lì in poi qualcuno non resta più al di qua del riparo, passa la linea che le separa dai loro fatti. “Seguile, le tue parole, fino al punto in cui trapassano nei loro fatti”. E chi oltrepassa quella linea, può essere semplicemente uno manesco, uno che ha avuto un’infanzia cupa, uno più frustrato o più fanatico; ma può anche essere uno dei migliori, uno che si costringe a fare quello che tutti proclamano doveroso fare, tenendosene al di qua, per viltà o pusillanimità o qualche altra debolezza. Di queste due genie di uomini (e di donne), e della gamma di sfumature che conduce dall’una all’altra, sono fatte le minoranze che nei tempi tempestosi prendono il primo piano, e possono trovarsi dalla parte giusta e dalla parte sbagliata, e diventare eroi popolari o terroristi messi al bando, e naturalmente la differenza fra la parte giusta e sbagliata è molto importante, e ancora di più la differenza fra la stagione della guerra vera e la stagione della guerra inventata, ma differenze così importanti non cancellano del tutto l’affinità. Io ho questo concetto della corresponsabilità: che se qualcuno traduce in atto quello che anche io ho proclamato a voce alta non posso considerarmene innocente e tantomeno tradito. Ne sono corresponsabile. Solo di quello, del resto, e non di altro. Di nessun atto terroristico degli anni ’70 mi sento corresponsabile. Dell’omicidio Calabresi sì, per aver detto o scritto, o per aver lasciato che si dicesse e scrivesse, “Calabresi sarai suicidato”.
Ma allora, ogni distanza tra parole e fatti è destinata a cadere? Sulle parole deve calare una censura preventiva tale da mutilarle fino a renderle invalide al loro fine di espressione? No, certo. lo zelo fanatico della correttezza verbale si tramuterebbe in una repressione insostenibile, sarebbe il mondo di Fahreneit 451. Tuttavia c’è un lunghissimo vocabolario da attraversare prima di arrivare a quel deserto della memoria e dell’espressione. C’è un ragionevole controllo da esercitare sulle proprie parole, lo stesso che si impara quando ci si sia bruciati una volta. Lo sguardo lungo fino al punto in cui il fatto potrebbe seguire. La nonviolenza, se non è uno scioglilingua per la riabilitazione dei reduci e dei combattenti, è questo: la correzione di un modo di essere non tanto sul versante della pratica, ma della grammatica, del pensiero e delle sue parole. Nel famoso Sessantotto noi ne avevamo di parole nuove a disposizione, e la nostra colpa – una debolezza del pensiero, un’ignoranza e una soggezione – fu nel cedere alle vecchie, pur sentendo che si veniva ritrascinati lontano dalla terra promessa. Piazza Fontana fa da spartiacque perché davvero lì questa retrocessione avvenne bruscamente, violentemente e tetramente. Ma i germi di quella sua tendenza la precedettero, e una misura di libertà e di autonomia riuscì anche a succederle”.
senza fretta.