Penso che il linguaggio abbia un codice strutturale profondo e segreto, ma che resti comunque qualcosa di cui l'uomo si è dotato per suo diletto spirito di creazione. A differenza di tutto ciò che ci contorna, che preesisteva a noi e che possiede regole di natura alle quali noi possiamo e dobbiamo semplicemente adeguarci, il linguaggio – nei limiti delle finalità con cui viene speso – non si impicca per forza a regole e circuiti che possano essere tacciati di artificialità, od obbligatorietà. Come – cioè – esponenti lontani e successori secolari delle stirpi geniali che nei millenni lo generarono e codificarono, si dovrebbe rivendicare il diritto di appellarsi ad una illusione. Vale a dire che le sensazioni, le emozioni pure più mie ed irripetibili, che non posseggono un linguaggio esterno e nemmeno uno interno, possano esplodere la gabbia della lingua e possano procedere in una dimensione commotiva opposta a quella strumentalmente segnata dalle cifre della lingua. Ovvero, che sia il linguaggio dei pensieri e dei codici parlati ad assoggettarsi alle sensazioni ed ai moti dell'animo umano, piuttosto che rimanerne rinchiuso in una gabbia di regole e consecutio. Se è vero che le emozioni prescindono dal linguaggio (e prova ne sia che anche gli altri esseri viventi – animali in testa, hanno sensazioni inesprimibili perché prive di linguaggio, ma le hanno), allora io mi illudo di inseguire quel sentiero lastricato di candore, dove le mie parole diventino lo strumento malleabile, adattabile e flessibile di un gioco degli specchi, dove i miei suoni, i miei colori, le mie immagini più profondamente "dentro", ottengano l'omaggio di una fotografia su bianco carta, senza che il codice scritto prenda il sopravvento, ma lasciando che sia l'inarticolato mare di dolore e commozione interiore ad esprimersi come meglio crede, con gli strumenti che ritiene più adatti al frastuono di quella stessa Illusione.
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