Poi:

accade che da qualche anno mi danno (in soggettiva, non da compassione altrui – pfui!) per lavorare con estenuanti difficoltà al mio processo mentale temporale per concentrarmi e badare all’essenziale del momento sospendendo le transizioni da prima a poi, viceversa e sottoveste, io sospendo e concentro e spremo la spugna del reticolo delle motivazioni cerebrali.

Ora.

Parlo di un unico spazio tempo vitale concentrato. Concentrico. Capito?

Ed ora, non interlocuzione ma precisamente: ora

Già di mio eventualizzato ad inizio bisesto a trapassarmi di ricordi, la vita e la morte che se ne portano altri e mi vanno oltre e mi escono da tutte le orecchie dello stomaco e dai pori dei poi che mi condannano al fu, insomma. il concentrato si è spappolato ovunque nelle pareti di ogni parto ed ogni parto è un partire scindere e generare gli avanti e gli indietri: era il tempo che mi sopravanzava e l’angoscia che mi rimontava (sopra strati di calma – me doc).

Già di mio – dicevo (al passato che è mo’): ingabbiato nel paradosso, me lo sono meritato: se non passa il tempo necessario, di fuori, non bergsoniano, proprio materialmente tic tic secondi minuti ore notti lavoro (quella roba) non ne esco fuori, non ne usciamo fuori – letterale – e non si esce più e non vivo più i rantoli di quella che è la mia essenza, oltre il tempo in uno spazio del tempo ben preciso, che riassume passato e presente nelle istantanee.

Quindi appallottolo tutto e devo fare il conto alla rovescia mettendo fra lui e me null’altro che il nulla.

Forse magari un giorno scoprirò che sarebbe sempre stato meglio così.

E quindi non scrivendolo (me) lo testimonerò.