E ritornavo al significato più intimo del concetto legato al giudizio, la valutazione (individuale, supposta) altrui, e degli altri. Avevo appurato e concluso che quando giudico la vita, i comportamenti, le parole di un altro individuo, ho la necessaria e basilare cognizione di causa che mi permette – lucidamente, scrupolosamente – di discernere fra la mia indubbia valutazione e l’essenziale verità che caratterizza il mio interlocutore, la quale, nel segno di un principio di rispetto universale, non potrà da me mai essere realmente conosciuta, e quindi rivelata, giudicata e certificata. Il giudicare veleggia tra questi due aspetti, che riuniscono i loro volti in un paradosso. Il mio è un giudizio apodittico e personale che niente e nessuno potrà modificare. Ma nel mentre lo pronuncio, so che il bersaglio cui si indirizza è un muro di gomma, una maschera sociale, perché il vero destinatario è ignoto e dignitoso nella sua in conoscibile unicità.
Questo vale per chiunque: per gli amici, i familiari, le persone care, qualche semplice sconosciuto, personaggi pubblici ed estranei totali. Proprio come i personaggi di un film.
Noi, assistendo ad uno spettacolo, cerchiamo di capire e di dare forme ai protagonisti che danzano sullo schermo (o sul palco, o in un libro) e li interpretiamo, li amiamo o li detestiamo, in una parola: li giudichiamo. Poter rivedere quella rappresentazione, o una messa in scena seriale, ci permette di cogliere altre piccole sfaccettature di quel poliedrico individuo. Eppure, al fondo, resta che dietro di esso si cela un attore, che presta il suo volto al personaggio ma del quale – nel momento della finzione filmica, sparisce ogni traccia. Ed ogni nostra velleità di pensiero conoscitivo si infrange contro la sua maschera che vive ed anima il nostro (individuale e comune) dibattito personale.
Ora, questa storia di maschere e di finzioni rischia di assumere una valenza negativa, spregiativa, come quando ad una parola od ad un’idea si associa per riflesso condizionato (istintivo) da secoli di pregiudizi, un significato che né etimologicamente, né sostanzialmente appartiene a quella parola, a quel concetto.
La finzione, la simulazione, il nascondersi dietro un velo vengono maldestramente accostate all’atto dell’ingannare, del tradire le aspettative, del confondere le acque per scopi occulti e – spesso – pericolosi.
Non è così: non sempre, non nel nostro caso. Se ci si rendesse conto che l’impossibilità di giudicare una vita dipende dall’irripetibile unicità di una coscienza vivente santificata da un continuo solo di spazio e tempo a coordinare la sua esperienza terrena, e se quel principio di verità permettesse di collocare il nostro giudicare gli altri (ed essere dagli altri giudicati) in una dimensione surreale, quindi parallela della realtà (dove ogni nostro pensiero, idea, concetto sul prossimo è sia lecito e dovuto, perché parte delle percezioni della nostra coscienza, ma altresì splendidamente vacuo, perché tocca il fenomeno e non il noumeno della vera essenza e coscienza altrui), allora ci si renderebbe conto, con piglio emotivo e scintillante, che ogni vita vissuta e vivente è un miracolo cosmologico, proprio perché assolutamente specifica e solitaria, in mezzo ad un caos di stelle e tempi infiniti.
Questa unicità spiazzante e suggestiva ci fa paura. E ci commuove. Ci apre le porte di una siepe buia e squarcia un pozzo fondo millenni. Da un lato premia la grandezza del nostro orgoglio e della dignità; dall’altro isola le sensibilità del nostro spirito in un mare di solitudine. In mezzo a miliardi di esseri viventi – non uno identico a me, non uno con cui condividere la globalità delle mie sensazioni, del mio animo, delle mie emozioni.
Un’angoscia infinita. Ed è l’istinto che prevale, di fronte alla paura, alla sopravvivenza che incombe e ci segnala moniti arcani, alla speranza disperata ed alla solitudine condivisa. E, normale conseguenza, costruiamo per noi un rifugio tutto nostro, un utero fetale post-natale, uno spazio in cui il mondo misterioso, aperto ed ostile, non ci pervada, non modifichi i connotati di quella nostra autocosciente unicità. La maschera è il velo di Maya dell’estrema autodifesa, un inno alla vita individuale e nostra propria.
Non è fatta per tradire e per ingannare gli altri ed il mondo. E’ fatta per difendervici, per difendere se stessi in un mondo che giudichiamo a vuoto e che cerca, prova, insiste a volerci giudicare, conoscere, per schedare la nostra coscienza. Non sarà mai così, nel gioco di paradossi e di finzioni.
Finché esisterà la maschera, esisterà l’irripetibile unicità della propria coscienza.

VECCHIOLEVIATANO 2010