Caro Marco,

avrei voluto scriverti tutto quello che ho provato in questa settimana, ed in ognuna di queste sere quando – solo io lo so – tornato a casa dal lavoro, ho cercato inutilmente di buttare giù parole, e ciò che schiacciava la tastiera non erano le dita tremanti delle mie mani, ma un enorme strano non inconsueto fiume liquido oculare, null’altro d’altro. E pure questa mattina, nella stessa posizione e con la stessa luce sullo stesso letto di 10 anni fa, e pure adesso, ora che la casa è invasa da 3 cose: la luce di un sole insolito d’inverno che batte sul pavimento, vaghi rumori della strada, e la voce della televisione che si è scatenata nell’anniversario del decennale – non ti dico il web – a riproporre quell’altro decennale: 1994-2004.

Nella mia mente, che tu sai non mente mai, ho scritto un libro per ognuno dei giorni in cui mi hai donato, senza nulla in cambio, delle emozioni e delle gioie che surclassano, per lacrime, quelle versate in nome della rabbia, del dolore e della morte. Ho riletto, sempre sullo stesso letto, il mio diario del 14 febbraio del 2004, e ti assicuro che è stato un calvario quasi come quello del valico di Chiunzi – tu sai.

Ho ripensato anche alla mia poesia, che mi dettasti due anni prima dell’ultimo traguardo, un epitaffio proveniente da universi di insondabile silenzio, che partecipò per interposta persona ai tuoi funerali.

Sapessi, caro mio fratello, quasi coetaneo, il mare di montagne che mi è sceso tra i piedi ad ogni passo, ogni istante un’istantanea, ogni respiro uno scatto della memoria, mentre intorno ognuno si sente in dovere di riproporre una sua verità, come se le emozioni avessero una voce, una retorica buona per le sentenze dei vivi.

Così, mentre ripensavo a tutto ciò, e non avevo parole, non avevo parole, e mi maceravo in quella particolare sofferenza umana dell’inespresso, di chi vive sulla propria pelle lo scandalo di sentimenti troppo intensi da riuscire a gestire, mi è venuta in mente una canzone, che parla di anni di battaglie per la strada – un titolo perfetto, non credi?

E’ una canzone che comincia così:

“Chased you out of this world, didn’t mean to stop
I turned around and suddenly you were gone
Like some bird from paradise, the fire and ice
We turned around and suddenly you were gone, gone, gone
And now summer burns a hole inside and years are golden once again
My thoughts return to you my dear young friend
Oh come this way
Will you look down this way
I go down on the street
Where the wild wind’s blowing
Here comes a hurricane”

E poi:

“I say oh come down this way
Will you look down this way
I need you tonight
I need you around me”.

Ecco, Marco: non riuscirei mai a dare conto ed idea – con miliardi di miei sproloqui – delle emozioni con cui hai segnato, realmente, anni ed anni della mia vita.

My thoughts return to you my dear young friend – più di questo non osa la parola: proprio non può.

E’ stata una fortuna ed un privilegio averti avuto con me lungo la strada, le discese ardite e le risalite, prima che scappassi via in fuga come sempre – Like some bird from paradise.

E ciò che mi distrugge è soprattutto il suddenly: come un tuo scatto, pur annunziato dall’aria, ma senza prova di appello: ci siamo voltati e non c’eri più.

E’ stata una gioia interminabile l’averti potuto conoscere di persona.

Per questo, spesso: i need you around me; e stasera, stasera sopra tutte, i need you tonight.

E’ stata una meraviglia l’averti potuto abbracciare, l’aver potuto sorridere insieme e l’aver potuto condividere uno spazio ed un tempo fissato per sempre dentro la stessa cornice, quella che vedi lassù: anzi di più: è stata una Magìa.

Ma ciò che di più prezioso mi hai dato, è stata una rivelazione che nessuno sa, solo io e te. Quando a dicembre dell’anno delle due maglie, venuto da te al tavolo, ci scambiammo le mani, ci guardammo negli occhi e ci dicemmo quel che ci dicemmo.

(Marco, adesso se ci penso sto malissimo).

Caro Marco,
come tutte le persone che fanno parte della mia vita, tu non morirai mai.
Ecco perché non aveva preciso senso scriverti proprio oggi, nel decimo anniversario di “torrida tristezza” come questo.
Ma si trattava solo di andare più forte, staccarsi il mondo di dosso, far fare un giro più veloce al sangue tra la gola e le mani, per abbreviare quella famosa agonìa, oggi tutta mia e solo mia – indivisibile ed incondivisibile – su cui hai reso più poesia tu di montagne di stupide ed inutili parole.

Perché io ti amo: perché tu sei Marco Pantani.