“Proprio in quel tempo Drogo si accorse come gli uomini, per quanto possano volersi bene, rimangano sempre lontani; che se uno soffre, il dolore è completamente suo, nessun altro può prenderne su di sé una minima parte; che se uno soffre, gli altri per questo non sentono male, anche se l’amore è grande, e questo provoca la solitudine della vita”.

Il deserto dei Tartari – Dino Buzzati 1940

 

“Supponiamo, per esempio, che io soffra profondamente: un’altra persona non potrà mai sapere fino a che punto io soffra, perché lui è un’altra persona e non è me, e, soprattutto, è raro che un uomo sia disposto a riconoscere in un altro un uomo che soffre (come se si trattasse di un’onorificenza). Perché non è disposto a farlo, tu che ne pensi? Perché, ad esempio, ho un cattivo odore, perché ho una faccia stupida, o perché una volta gli ho pestato un piede. E poi c’è sofferenza e sofferenza: una sofferenza degradante, umiliante come la fame, per esempio, il mio benefattore me la può ancora concedere, forse, ma quando la sofferenza è a uno stadio superiore, quando, per esempio, si soffre per un’idea, quella non me la accetterà, perché, diciamo, dandomi un’occhiata, ha visto che non ho affatto la faccia che, secondo la sua immaginazione, dovrebbe avere una persona che soffre per un’idea. E quindi egli mi priva immediatamente dei suoi favori, e non si può dire che lo faccia per cattiveria. I mendicanti, soprattutto quelli nobili, non dovrebbero mai mostrarsi, ma dovrebbero chiedere l’elemosina rimanendo nascosti dietro i giornali. Si può amare il prossimo in astratto, a volte anche da lontano, ma da vicino è quasi sempre impossibile. Se tutto fosse come a teatro, nei balletti, dove, quando appaiono mendicanti, essi indossano stracci di seta e pizzi lacerati e chiedono l’elemosina danzando leggiadramente, be’, in tal caso, li si potrebbe ancora ammirare. Ammirare, ma non amare. Ma finiamola con questo argomento. Volevo soltanto esporti il mio punto di vista”.

“I fratelli Karamazov” – Fëdor Dostoevskij 1879

 

(Chi patisce non è atto a compatire)
Quando ci si interroga sul male, esso viene visto e vissuto come qualche cosa di assolutamente e tragicamente avulso dalle circostanze normali ed umane, come qualcosa che sfugge al controllo totale e soprattutto come un elemento non programmato ed estraneo al modo di intendere le cose della vita. In realtà, l’errore principale che si commette quando viene affrontato l’argomento del male è costituito proprio da questa premessa infondata, in cui è già presente un abbaglio deviante di fondo, appunto il non considerare il male come componente sistemica e sistematica dell’intero complesso in cui accadono gli eventi, cioè la natura.
Noi esseri umani, ovviamente, siamo portati a valutare alcuni aspetti in maniera negativa (in valore assoluto), quindi come male, come dolore e sofferenza, e questo perché noi utilizziamo tutta una serie di categorie morali ed etiche scolpite e definite dall’evoluzione umana e del pensiero. Questa riflessione, tuttavia, introduce anche una doppia chiave di lettura, nel senso che potrebbe non essere il pensiero che si è sviluppato, affinato, approfondito fino a codificare il concetto di male, ma se vogliamo è la presenza naturale del male e del dolore che ha spinto l’uomo, o meglio il pensiero dell’uomo, a darsene una ragione, ad arrivare a definire cose naturali come Male, semplicemente perché erano accadimenti carichi di sofferenza che l’uomo non poteva spiegare e motivare, con il semplice sgomento della commozione, a se stesso. Una sorta di paradosso, se si vuole, questa idea che il male nasca perché l’uomo non riesce a dare una definizione di cose che non capisce e quindi finisca per inquadrarle nell’idea del male elaborando intorno a questa attribuzione terminologica l’insieme completo di definizioni, di categorizzazioni e classificazioni.
Resta la constatazione che la casualità accidentale del male, unito ed intrecciato alle circostanze delle vite comuni, si pone come effettività sistemica e normale, senza possibilità di rimandarlo in un postribolo di rifiuti come fenomeno deteriore, accidentale, deviato, inaccettabile, implausibile, innaturale. D’altronde, il mondo della natura vive di lotta per la sopravvivenza, di battaglie, predomini, di atteggiamenti sostanzialmente naturali contornati di vita, di morte, di dolore e di tragedie che noi percepiamo e definiamo come tali, ma che non meritano una precisa identificazione perché sono come sono in quanto sono.
A ben pensarci, chi crede in un Dio Onnipotente e Creatore di ogni cosa, giustifica e motiva il male attribuendolo ad un disegno dell’assolutezza di Dio che noi umani non possiamo comprendere e definire, senza rendersi conto che tale ragionamento, spinto alle estreme conseguenze, deve costringere (con la ragione della fede) ad accettare qualunque cosa ci succeda come un dono d’amore divino, e quindi a posporre il dolore atroce che si prova nei confronti delle tragedie personali, all’amore indiscutibile e incontrovertibile per il Padreterno, ma la verità è che non esiste alcun individuo che nella sincerità della propria coscienza abbia accettato, senza mai imprecare e dubitare, tutte le decisioni divine arbitrarie ed atroci che hanno segnato la propria esistenza nel dolore e nella sofferenza. Mentre chi non crede in un Dio del genere, consegna il Male alle cose inevitabili della vita degli uomini e della natura, senza darsi altra ragione che questa spiegazione illusoriamente logica e consolatoria. Nell’uno come nell’altro caso, il male appare una cosa naturale ed innegabile, senza avere un peso morale peggiore o diverso dal resto delle cose che accadono in natura, e dunque nella scelta precisa di una volontà volta al male ci sarebbe tutta la dignità della libertà umana, dettata dal disegno di una mente creatrice ed onnicomprensiva a cui attribuire ogni responsabilità, o di una natura che è così com’è e sulla quale non è possibile discutere od obiettare, tanto più in quanto esseri ospitati in essa successivamente alla sua misteriosa apparizione.

VECCHIOLEVIATANO 2001