vorrei poter dire (scrivere sì, lo sto facendo, per fortuna è ripreso tutto) che le ferite umane inferte a me da questo anno indescrivibile non verranno rimarginate dal tempo, mai, ed eppure sarebbe una cosa detta con così tanta incisiva essenzialità quanto con così poca – anzi nulla – enfasi, da assurgere a dimensione di dato di fatto universale incontrovertibile. Voglio dire: senza accuse per alcuno, senza sentimenti di delusione, di ripicca, di acidi riproponimenti di futuri sguardi e gesti negati, no no: nulla di ciò. Dovrei enumerare cosa? oggetti, muri, persone, stanze, voci – tutte cose fallaci. Perché qui chi scrive sono io: io che dal non aspettarsi nulla dagli altri posso farci con delicata poesia Leopardiana il modo più bonario e gentile con cui lo si potrebbe evidenziare nel suo significato più profondo, essendo ciò la norma di natura, che funziona così, quindi a suo modo (od a sua moda, una sfumatura di eleganza sopraffina) splendida, gelida, regale, pura e vera. Quindi qui insomma ferito perpetuo e non deluso, un applauso silenziato da me: che mi sollevo dall’incarico di recitare l’appercezione trascendentale che si trasale in questo anno raccapricciante, potendo avanzare con un sorriso tremendamente inguardabile (sto scrivendo, come lo vedo?): che ho così tanta musica nella testa che questo sì che lo riesco a scrivere, a dirlo ed anche – danzettando, tipo esempio ieri sera mezzo ubriaco con mezzo boccone, molto a modo mio – anche a cantarla, senza obbligo o necessità (nel momento in cui ho scritto “appercezione trascendentale” mi sono posto ad un livello di poco superiore al mio, una circolarità così sferica da mettere a referto il pianeta numero 11 nel sistema solare) senza obbligo o necessità di voltarmi per guardare con rabbia.
Quale onore tale Libertà.