Ad un certo momento, che di sicuro non è (-) “certo” in relazione al momento in cui giunge, ma certo in quanto ineluttabile, arriva l’estrema urgenza di riflettere – e anche riflettere, mai come nel caso in questione, ha una valenza al quadrato – sulla circostanza di scrivere un diario. Circostanza, non già “senso”, significato, interpretazione inconscia, valenza nevrotica o quant’altro: intendo proprio il fatto di rileggere episodi della propria vita di uno, due, cinque, venti anni fa, ed ad un’età ancora relativamente giovane, prima ancora del mezzo secolo vissuto, e dunque già con un circa 66% della propria vita riassunta in forma scritta, che coincide evidentemente ed esattamente con l’ultimo 66% di tutta la propria vita.
Non c’è un episodio in sé che ti fa scattare dentro la necessità di riflettere; e – dicevo ad inizio – riflettere è proprio parola ad hoc, per il fatto che qui ci siamo io e la mia storia, scritta e rivissuta, un guardarsi dentro e un vedersi riflesso in un gioco di specchi tra presente e passato, tra ricordo scritto (nel momento in cui non era ricordo, ma attualità brevissima) e memoria del ricordo, e inevitabile surreale sintesi tra ciò che di quell’episodio ricordavo e ciò di cui scrissi in quanto vissi, nonché ciò di cui mi ricordavo potessi aver scritto e ciò che di diverso (da ciò che scrissi? da ciò che vissi? da ciò che ricordavo di aver vissuto?) vi ritrovo leggendolo. Delle scatole cinesi.
Il dato di fatto più assurdo, e pertanto la sensazione che si prova a rileggere quanto io di me raccontavo – ad esempio nell’estate del 1996, appena 23 anni fa, esattamente metà degli anni miei attuali – è proprio l’incapacità di dare voce, sembianze e trascrizione a questa sensazione, e soprattutto l’enorme abisso cui ci si trova di fronte pensando che si è tra i pochi, al mondo, e viventi, che possano sapere e capire di cosa (si) stia parlando, essendo che gli stessi che stiano eventualmente vivendo situazioni simili (un diario scritto quotidianamente dall’età di 17 anni in poi – per 30 anni consecutivi, ad oggi, per quel che mi riguarda) possono contarsi sulle dita di una mano – immagino. Quindi un fatto quasi unico, che si agisce scrivendo la propria vita per decenni, ed una sensazione unica al quadrato, di rileggere se stessi dopo altrettanti anni, provando emozioni che non si è in grado di spiegare, sia perché notoriamente soggettivamente uniche come tutte le esperienze personali, sia perché oggettivamente rare, se non uniche, come ad esempio la materia emotiva e percettiva cui ci troveremmo di fronte nel cercare di capire le emozioni di un astronauta, o di chi è stato sulla Luna, prima ancora di provare ad immedesimarci nell’esperienza in sé.
Questa difficoltà ad assumere una posizione intermedia tra oggettiva e soggettiva, nasce dal fatto che, nel leggere episodi della propria vita di anni fa, scritti da se medesimi, si è nella triplice veste di: scrittore, lettore, e protagonista della storia: sfido chiunque ad immedesimarsi nella situazione. Quando leggiamo un libro possiamo immedesimarci nel protagonista; possiamo figurarci incombente alle sue spalle l’autore: ma una perfetta identificazione tra scrittore/autore, protagonista e lettore costituisce un unicum.
Senza filosofare troppo, quando rileggo provo: sentimenti di tenera allegria, ontologica da un certo punto di vista: il sapere di poter ricordare con argomentazione scritta, ricostruire, in qualche modo dimostrare a me stesso di esserci stato, a me presente, in ogni momento della mia vita; divertimento che contempla e diluisce una certa sovrannaturale pace interiore – intimamente in contatto con quella tenera allegria di cui sopra: perché il più delle volte mi ritrovo ad affondare ben più di uno sguardo in situazioni dei tempi di gioventù, che mi creano appunto più spensieratezza interiore che nostalgia o rimpianto per il tempo trascorso. Una certa bonaria indulgenza per le modalità di scrittura che, chissà perché, mi appaiono molto semplici, direi elementari nella loro linearità, spesso anche molto retoriche sentimentalmente; ma al contempo sapere, senza nasconderselo troppo perché la controprova è dietro – letteralmente – l’angolo della scrivania – che codesta linearità semplice e cronachistica sicuramente contraddistingue gli stessi più recenti diari, proprio in virtù del fatto che, malgrado questa presunta profonda evoluzione lessicale e culturale (ma sto scrivendo un diario, non un’autobiografia o un romanzo!) il complesso del lessico diaristico ha e deve avere questa paradigmatica cifra nei contenuti: se non si è retorici, e sentimentali, in un diario personale, che senso avrebbe scriverne uno? (toh, è sbucato un senso).
Perché scrivo queste riflessioni: perché non ho ancora capito a livello conscio e quindi trovato le parole adatte, (proprio io che scrivo parole da sempre!) per descrivere con compiutezza, anche per un desiderio di comunicarlo agli altri, a tutti gli altri, e cioè a tutto il resto meno uno escluso da questo fenomeno, cosa si prova a crearsi – con le proprie mani, letteralmente – e vivere questa esperienza unica, del rileggere la propria vita scritta da se medesimi.
Ma forse, per concludere, è proprio questo l’unicum al cubo della situazione: è un dato di fatto raro ed esclusivo tenere un diario per buona parte della propria vita; lo è certamente il poterlo rileggere; lo sono inevitabilmente le sensazioni ed emozioni, in chiave oggettiva e soggettiva e dunque due volte complicate da tradurre e comunicare agli altri.
Alla fine, come mi sento, in qualunque circostanza, è un fatto che appartiene solo al mio profondo: il fatto che possa riguardare un’esperienza che altri abbiano fatto in precedenza, o un’esperienza unica al mondo, non muta di tanto le cose. Semmai, può alimentare una spirale metatestuale, nel momento in cui, come in questo stesso frangente, scrivo nel diario una riflessione che ha per oggetto – assunto sempre me come scrittore-lettore-protagonista – ciò che si prova nel rileggere se stessi ad anni di distanza, e chiedersi: quando tra 20 anni rileggerò nel mio diario questa riflessione, che sensazioni ed emozioni proverò?
E perso in questo meraviglioso, astrale paradosso curvo e spiralizzato di me stesso, posso chiudere il cerchio e riprendere da dove ero partito, che poi è lo stesso punto in cui sono arrivato.

VECCHIOLEVIATANO2019