Category: Musica Poesia Racconti


2023

“son quelle cose dette senza pensare e che, anzi, vanno dette proprio perché non vengono pensate, anche perché se le pensassi davvero non le diresti mai e anzi, probabilmente, non è che non le diresti seppur pensandole, ma più semplicemente non le penseresti neanche, non le pensi neanche. Le dici solamente. E a volte le scrivi”.

 

quest’anno ho vinto lo scudetto

e perso il ben dell’intelletto

nelle troppo spesse rese dei conti a letto

mi resi conto di quanto spesso ho detto

perché del resto niente ho scritto

nessuno scatto e un passo sciatto

pensato troppo e pianto oltre

nel malinconico vuoto circolare.

Ma: non tutto è da buttare.

Salvo – non come escluso ma il suo opposto:

un video, una foto una sedia ed una radio

una curva al tramonto una bandiera volata da irreale corridoio

una moneta e una scatoletta piena di sogni

di mio padre e mio fratello tutto intenso vero e bello.

d’altro taccio che ho smarrito il tocco.

Pure: fui quel che fui e sono ciò che so

e so che ancora sono ciò che fui

anche non trovandomi, e vano riprovandoci

riprovevole dimenticandomi.

Ma va bene così: perché un giorno ci riderò

– amaro: il riso ma non quel dì

quando il senso mi ridarò

che sarà allora che capirò

il pensiero muto che lascio qui.

 

“dalla terrestre volta, per ancora una volta: io travolto volto il volto”.

CORTO INTERROTTO

Ci sono alcune canzoni che, per misteriosi motivi, durano meno di quanto dovrebbero: in proporzione alla loro fama, alla loro bellezza, insomma meno di quanto sarebbe giusto ascoltarle – più a lungo e con maggior gusto.
Me ne vengono sempre in mente tre

1) Please, Please, Please Let Me Get What I Want – The Smiths (110 secondi)
2) I’m on Fire – Bruce Springsteen (155 secondi)
3) Knockin’ on Heaven’s Door – Bob Dylan (151 secondi) (che poi per inciso, a parte la vucell’e pucuriell’ del proverbiale nobel, proprio per questo la versione di oltre 5 minuti dei Guns è molto meglio. Tie’)

In 3 non arrivano a 7 minuti.

Mo’ è vero che la brevità è sorella del talento, ma qui si è esagerato, ed è stato un vero peccato.

dice che il tempo passa.
non propriamente.
il tempo è infinito (o più correttamente: illimitato) nella costruzione mentale che un essere vivente può provare a concepire, in quanto elemento portante delle dimensioni dell’universo esistente, finito ma illimitato, secondo l’accezione Einsteiniana dello spazio-tempo-mondo creato, formato e deformato dalle masse e dalle energie che contiene;
e ma che, quello stesso essere vivente, nel conTEMPO, è concettualmente, tecnicamente, materialmente impossibilitato a fare, a concepirlo razionalmente, sensatamente, definitivamente.
Ne deriva che:
il tempo in realtà non passa
che la deriva appartiene esclusivamente all’uomo.
siamo noi che passiamo
passo dopo passo
molto spesso passivamente
appassendo e svanendo
e passando la mano continuamente
– continuativamente –
e non solo quella
ma anche tutto il resto del corpo
finché di colpo
di tempo non ce ne resta più.

noi all’impasse
e lui lì immobile
impassibile
impassato
intrapassabile

(non metto il punto)

Le parole dette nascondono una sola, grande, inconfutabile verità: espressa e manifesta in tutte le altre parole, quelle non dette.
Quando succede che i morti ti siano più di compagnia dei vivi, diventa quasi sensato assumere per dato quel paradosso che forse tale non è.

Troppo dentro e fin oltre l’umano per essere condiviso da un altro essere Umano.

TU  (01 gennaio 2022)

Tu ti devi mettere in testa

che tutti i tuoi lamenti e le tue contraddizioni
che tutte le tue presuntuose autocelebrazioni
che tutte le tue monotone noiose ripetizioni

tu devi metterti in testa

che tutti i tuoi cambi di umore
che tutti i tuoi slanci di immotivato amore
che tutte le tue speranze illusorie
che tutti i tuoi rovesciamenti del gioco degli opposti

tu ti devi mettere in testa

che tutte le fottute cose che pensi
che tutte le fottute cose che fai o non fai
che dici o non dici
i tuoi silenzi o i tuoi malumori o i tuoi tormenti
o recitare il gioco dei vincenti o dei perdenti

tu ti devi mettere in testa

che tutto questo sei tu
e ti devi mettere in testa che non cambierai mai
o non più

e tu devi metterti in testa

che la festa è tutta qui
e che tutto questo lo devi accettare

tu ti devi mettere in testa che tutto quello che di giusto o sbagliato
tu possa pensare di te stesso, cambiando continuamente giudizio e capoverso

tu devi metterti in testa che va bene così

e ti devi mettere in testa che comunque sia lo devi accettare
ed in ultimo, perché potrei continuare in modo sterminato
e sterminare le tue palle, come tu fai con me
con tutto ciò che penso di te, che pensi di te

tu ti devi mettere in testa

che se anche non accetterai di mettertelo in testa
anche questo non accettarlo farà parte del tuo modo di essere
di quello che sei
che non cambierà mai,
o non più

perché questo sei tu

e quindi anche se deciderai di non mettertelo in testa
devi accettare che questa rifiuto fa parte semplicemente
del tutto che tu sei, e che dal tuo cerchio non ci esci mai
e quindi anche se deciderai di non volertelo mettere nella testa
in realtà ci sta già, ci sei già.

e quindi tu ti devi mettere in testa
tu in testa
e dietro il tutto tanto o poco che resta.
———————————————————————————————————————————-

…e quel tutto, tanto o poco che sia, è molto semplice da percorrere come via

fare il bilancio: pesa
fare i piani: stanca

quindi non cambio una virgola, forse due, di quanto scritto 365 giorni fa: inizio e fine coincidono, devono.
perché questo è il peso del mondo che stanca,
di stanza dentro.

E tu, hai tu forse paura del buio?
Allora stacca la mano dall’aria che contrasta quel peso d’immondo
e intreccia la mia, un’ultima volta, per un secondo.

Buon anno, Vecchioleviatano.

Oggi compio 50 anni e questo post è completamente plagiato ordunque ispirato da quello scritto esattamente 10 anni fa a quest’ora (più o meno: ma cosa è un più o meno in faccia a un mezzo secolo? A pensarci trasecolo). Ancora infatti pur oramai disancorato avviato in alto ed altro mare, nel mio rinnovato ribadito sbiadito modo di non credere a nulla, credo ci siano cose simboliche, date sicuramente (e/o restituite: male, più che mai).
Oggi 29 settembre è di fatto necessario considerarla una di quelle, perché transeat per i giochi di parole 40 = forty = forti (sensazioni), o i quadratini deliranti di un anno fa (che però ho opportunamente aggiornato), la ricerca degli scontrini dei non dico 49 precedenti ma quasi, ma qua spacchiamo fifty fifty il secolo breve, precisi e secchi come solo l’orrore di guardare in faccia l’errore (e viceversa) prima di ridere di sgusto potrebbe fare. Non so se il tempo mi darà tempo di cambiare idea, e francamente non mi interessa quasi più,
all’età
(di cui ognuno è figlio. e al tempo stesso padre e madre. e anche sorella e fratello. e così, come in una messa, messi tutti).

E sia.

Ciò su cui non cambio idea – è matematico e pertanto lo ricopio identico –
è la convinzione che tutto questo non valga la pena,
né per me né per nessun altro.
In questa mia certezza mi ritrovo solo (non più tanto, invero. e non so se sia un bene o un male. intendo per colui il quale), benché la convinzione sia di caratura ontologica (non strettamente personale, anche perché, specie negli ultimi anni, di strada se n’è fatta assai)

Pure, essendoci mio malgrado (forse…!) e – lo ripeto: se potessi scegliere, anzi – paradosso – : se avessi potuto scegliere, avrei scelto di non nascere –
gioco il gioco che il simbolo richiede
ed elenco quelle che sono (qui il plagio si incrina un po’)
le cose (generico: 10 non ce le trovo) per le
quali varrebbe la pena vivere
se veramente valesse la pena vivere.

Metto ciò che resta:

la musica sì (la canzone è DATA)

il pollo sì (la foto è DARIA)

il bere (che stava inopinatamente nel commento e non nel post orginale) sì (la foto è TRINITATA)

il tramonto – ma giusto per come lo descrissi (e infatti non metto la foto, lascio l’immaginario)

e Praga in senso scaramantico sperando di rivederla, anche se i miei schemi numerici sono saltati per aria, gli incastri i desideri e le magie: tutto polverizzato.

il restante è di contorno (fatti salvi i miei capisaldi letterari che non elencherò, perché li so).

Lo scandalo è la sparizione del Napoli. Quando scrissi quel post, se fossero venuti da me queruli e questuanti tutti i me di un futuro cominciato da qualche anno (due o tre) a scandalizzarsi che 10 anni dopo non ci sarebbe stato, li avrei rispediti al mittente, argomentandone con un cenno della mano inequivocabile l’impossibilità. Inequivocabile tanto il cenno quanto l’impossibilità. Che poi come si vede non esiste, al limite l’improbabilità. Che poi come si vede non era potenzialmente tale, nella tremenda fattispecie.

Le altre rimasuglie sono spunti. Le aggiunte o le varianti, transeunti. Ma attenzione: io non dimentico. Ho così cari i miei sterminati ricordi che nessuno è riuscito a sterminarmeli, di persone, amori, momenti, situazioni, illusioni, circostanze fantastiche e straordinarie. Ma qui si sta filosofeggiando su un apriori e, ad esso connesso, su una ipotetica. Quindi non sporco nemmeno di striscio le mie memorie, che pure non torneranno più.  
E ci credo
.

Abbrevio così: sto viaggiando al tramonto (verso la costiera? verso casa?), mi attende un negroni, un pollo ed una birra, e sto ascoltando la radio (anagramma di dario) in macchina.

Le sensazioni forti, quelle intense e brevissime, di cui lì scrivevo, e che oggi vivo a tratti assai tenui, hanno sostituito le emozioni di un tempo. Ammesso che non fossero lo stesso fenomeno, racchiuse complete in uno stesso complesso e compresso noumeno.

Mi piace ancora scrivere, ma non so se mi ritroverai ancora qui tra 10 anni.
Ascolta però: sai come pronuncia un mezzo bleso al secolo (mezzo) zeppolaro le parole seguenti?

RE-fifti ed IN-fifti.
IN-fifty e RE-fifti.

REfifti ed INfifti.
L’autoaugurale mia genialità sta tutta qua.

Buon mezzosecolo mezzasega VecchioleviadORO!

(preambolo:
alle 14.21, in fuga dalla fatica, Laura mi chiese/scrisse: “Te l’ho mai raccontato il mio primo bacio”?
Risposi: “spara”!
L.: “A proposito di scappare. Ero fidanzata, ma a mia insaputa. Era San Valentino, ma ero all’oscuro anche di quello. E niente quel povero Dario (… Ebbene, sì) mi mise in mano sto pacchettino e mi baciò. A ME. CON LA LINGUA. E scappai. Cioè proprio mi girai e mi misi a correre modello corri Forrest, corri. Però più forte”.
L.: “Se mi racconti il tuo lo trovo quando arrivo a casa”
D.: “provvedo, sperando di non essere troppo prolisso come di consueto”.
L.: “A me prolisso piaci”
D.: “Peggio per te, sarò prolississimo”

Intanto, Laura non mi ha ancora detto cosa ci fosse in quel pacchettino. Aspetterò: ha tempo un mese, perché curiosamente esattamente tra un mese (per la precisione il 21 ottobre) saranno passati 25 anni da un altro primo bacio. Nel mio pacchettino odierno c’è questo racconto, con tanto di implicita dedica. E sia!


Premessa (d’obbligo): a metà anni ’80, in un’estate a Palinuro io, Sandro e Marco eravamo innamorati della stessa ragazza, che si chiamava (e si chiama tutt’ora) Mariella Ricciardi. chiaramente lei scelse il più grande tra noi.

Anno successivo, primo di liceo, primo giorno di scuola, appello. anatella, blablabla, coppola, de maio, eccetera, marino francesco, marino luigi, pelliccia dario, …. ricciardi mariella! Ovviamente non era la stessa dell’anno precedente, ma ovviamente io mi innamorai lo stesso e di nuovo, questa volta sulla parola.

La corteggiai spietatamente per 4 mesi a modo mio, cioè ignorandola. A fine gennaio mariella capitolò, un sabato che stava seduta esattamente davanti a me, io le lanciavo le palline di carta (…), lei provava a schiaffeggiarmi pur dandomi le spalle, ed alla fine le mie mani cartucciate e le sue schiaffovolteggianti si incontrarono. e restammo tipo 4 ore mano nella mano mentre lei guardava la lavagna ed io un punto imprecisato del mondo. soprattutto perché lei mi faceva dei giochi assai strani nel palmo della mano con sue le dita affusolate. palmo e cardiopalmo.

Uscimmo di scuola senza dire una parola. poi lei si impose e tuonò: ora mi accompagni a casa con l’autobus! io non dissi niente, non capivo niente, non avevo una precisa idea di cosa mi sarebbe accaduto nel futuro più prossimo: uno schermo nero davanti agli occhi. appena salimmo sull’autobus mi prese per mano, mi portò in fondo e …. Bam! mi infilò la lingua in bocca senza ritegno per tutto il tratto Cavour – Piazza Carlo III. Apersi gli occhi in un solo breve frangente (o sarebbe più corretto dire in una sòla occasione!) per vedere se il mondo esisteva ancora, ed incrociai lo sguardo di marino luigi che era sullo stesso bus e che mi aveva confidato tempo addietro che era innamorato di lei. Decisi che era meglio tenere gli occhi chiusi.

Infine, scendemmo a Piazza Carlo III e lei se ne andò a piedi a casa senza aggiungere altro: in tutti i sensi lingua tacque. io non sapevo, di preciso, dove fossi e come mai potessi tornare a casa, mi incamminai a caso e fraastornato per vie a me sconosciute ed infine, ad oggi ancora non sapendo bene come, giunsi alla magione a piedi (ovvero sulle ali del turbamento estremo).

il pomeriggio andai da Marco a raccontargli tutto come una sorta di rivincita: avevo anche io la mia mariella ricciardi! Marco fece una sola considerazione: che la lingua in bocca era una cosa vomitevole. Così cambiai argomento.

…. Questa è la storia del mio primo bacio: ma il megliopeggio doveva ancora venire. Con Mariella, ci rivedemmo il lunedì a scuola. e restammo senza guardarci e senza parlarci per le prime 4 ore di lezione. Ma al momento dell’intervallo, quando tutti i nostri compagni uscirono fuori a scorazzare per i corridoi, lei tornò da me e mi ricacciò la lingua in gola.

In quel frangente, una professoressa di un’altra sezione, passando fuori la porta della classe, vide la scena e – lanciando un urlo tarzanesco – ci prese e ci trascinò dal preside.

Un giorno di sospensione. Oggi, per molto meno, si finisce in tv o si diventa influencer.

Uscito di scuola, meditai a lungo su come suicidarmi, se sperdermi per le vie del mondo e morire di stenti oppure lanciarmi sotto la metropolitana. Mi decisi per questa seconda opzione, perché avevo l’abbonamento: mi sembrava una cosa più romantica.

Eppur non mi ammazzai: tornai a casa e decisi di confessare il crimine a mia madre. Qui, a sorpresa, accadde una cosa del tutto imprevista ed imprevedibile agli occhi della mia coscienza sporca e funestata dagli eventi: che stranamente mia madre non mi condannò, ed anzi mi assolse con formula piena. Inoltre, avrebbe spiegato tutto lei a papà.

Così decisi di non suicidarmi più.

il giorno appresso papà mi accompagnò dal preside senza dire una parola, da casa a macchina a foria al liceo. Vagamente grugniva: non se fosse per disappunto o malcelato orgoglio. (oggi mi sono dato la risposta più dolce). Mariella invece venne col fratello – la vigliacca! il preside ci rimandò in classe con tono severo, e da quel momento io e mariella non ci rivolgemmo più sguardi né verbi, né tantomeno una lingua.

Il sabato successivo, in gita ad un circo, mentre ammiravo i volteggi dei pagliacci, vidi mariella infilare la lingua in bocca ad un mio compagno di classe: marino. Ma non marino luigi, il primo innamorato deluso: bensì marino francesco, che peraltro era molto più alto di luigi, e di me – va da sé.

Fu là, in quell’istante, che capii che il pagliaccio ero stato io.

e che il mio primo bacio era andato per sempre a puttane.


Ogni riferimento a persone esistenti o a fatti realmente accaduti è puramente voluto, in quanto vero.

Vecchioleviatano 2022

as I try to write something
she interrupts me to beg me to save the life
of an insect that desperately shakes its paws belly up.
I tell her that that bug is me
when I’m interrupted while I’m desperately trying to write something.
End of the poem.

(then I turned it over anyway but it
already seemed good that gone.
but I photographed it – alive.
both us live in half)

VECCHIOLEVIATANO 2022

 

 

tu mi chiedi di Maradona, ma io non ti racconterò di Maradona: della sua vita hanno parlato in tanti, in troppi, in tutti. Tu mi chiedi ancora di Maradona, ed io allora ti parlerò della vita di un bambino, il terzo di 4 figli di una famiglia di Napoli, e ti racconterò 7 anni di storie intrecciate, semplici complessi incancellabili fotogrammi della memoria, e lascerò che sia tu con la tua sensibilità, con l’amore di queste parole, a capire la vera storia di Maradona, attraverso la storia di quella famiglia.

Questo racconto comincia nella primavera del 1984, quando questo bambino di quasi 12 anni sognava di vedere giocare nel Napoli il Grande Campione, e ritagliava foto e notizie dai giornali sportivi, e ci riempiva i suoi quaderni a quadretti, ed ogni giorno il grande Campione si avvicinava al Napoli, ma il giorno dopo se ne allontanava, e lui tagliava e ritagliava quel saliscendi di titoli di giornale, e modificava i suoi piccoli commenti accanto a quei ritagli incollati nel quadernetto.

E poi un sabato, il 30 giugno dell’84, alle 8 della sera, quando il trasferimento del secolo sembrava oramai sfumato, e quel bambino era sospeso sulla scaletta che conduce al soppalco per andare a prendere i costumini e le scarpette da mare (che il giorno dopo si andava con la famiglia a Seiano) il telegiornale dalla televisione in bianco e nero alle sue spalle annunciò che la trattativa per Maradona a Napoli si era riaperta a poche ore dalla chiusura del calciomercato.

E così, tutta la sera e tutta la notte, quel bambino e il suo papà rimasero in cucina a guardare le televisioni private, finché in sovraimpressione non comparve la scritta “Maradona è un giocatore del Napoli”. E quel bambino abbracciò forte suo padre.

Poi venne luglio, e dopo la storica presentazione di giovedì 5 allo stadio,  il Napoli andò in ritiro a castel del Piano, e nella prima amichevole Maradona segnò un gol in rovesciata, e quel bambino cominciò a vedere le sue prodezze in televisione, e cominciò a sognare. Ad agosto, quella famiglia di Napoli non andò in vacanza, ma una domenica di inizio settembre fece visita ai parenti della mamma a Vico equense/Seiano, e quella domenica in coppa italia a Pescara il Napoli vinse 3-0 e Maradona (che già era andato a segno nelle precedenti partite) realizzò una rete da terra, astrale: seduto spalle alla porta. Quel ragazzino vide il gol con i cugini della mamma che sembravano felici ed entusiasti, ma il più contento di tutti era lui.

Perché il campionato era alle porte, e la vita pure.

Ma il campionato non cominciò bene, il Napoli perse a Verona. Uno strano segno del destino, perchè quel Verona, proprio in quel campionato, avrebbe vinto il primo scudetto della sua storia e forse, chissà, fu proprio l’impronta del Campione nel suo primo campo calcato in campionato a marcare questa bizzarra controversa paradossale magia.

Una settimana dopo Maradona segnò il primo gol al San Paolo, su rigore, pareggiando contro la Sampdoria: quel ragazzino, con la radietta nella sua stanzetta, avrebbe sperato di vincere, ma all’inizio le cose non andarono per il verso giusto, e quando venne natale la sua squadra del cuore era messa davvero male.

Ma questo non intaccava l’entusiasmo di quel ragazzino. In casa c’erano altri tre figli. C’era una sorella maggiore che avrebbe giocato un ruolo decisivo nell’amore tra quel ragazzo ed il suo Campione, ed altri due maschietti, il più grande era certo il più intelligente e cristallino, ed aveva vissuto dai racconti di un suo amico l’epopea del grande Torino, e del Torino del ‘76 che rivinse uno scudetto dopo la tragedia di Superga, e che per questo aveva il cuore granata. Poi c’era il ragazzino protagonista di questa storia, il più furbetto e coccolato dei figli; e c’era l’ultimo bambino, il più piccolino, talmente estroso ed inclassificabile da poterlo definire fuoriclasse, a modo suo. I due maschietti più grandi si sfidavano a colpi di poster sui muri della loro stanza: per un ritratto di Diego, una gigantografia di Junior, per la squadra azzurra al completo immortalata sulla parete di un letto, la risposta granata sulla parete opposta. E molto spesso, i due fratelli coinvolgevano il più piccolo, l’inclassificabile fuoriclasse biondo, nelle loro rivalità, magari aizzandolo a strappare un poster per fare dispetto all’altro. Giocavano però anche tra di loro, in modo affettuoso, fantasioso, meraviglioso: il più grande tirava le punizioni alla Junior o alla Maradona, il più piccolo sul letto si posizionava in barriera, e l’altro – sul suo letto eretto a porta – provava a parare: era un tridente di giochi davvero impareggiabile.

Così, quando venne il natale dell’84 ed il più grande dei tre fratelli maschi ebbe in dono una kodak, fu proprio con quella kodak che scattò le foto a Maradona, ed al suo fratellino dentro il campo di allenamento a Soccavo Paradiso, dove il papà li aveva condotti, grazie all’amicizia con il preparatore atletico del Napoli che insegnava nella sua stessa scuola. Fu il giorno in cui il nostro ragazzino restò paralizzato, con l’agenda degli autografi tra le mani tremanti, davanti al suo idolo che usciva dal campo di allenamento, che gli passò accanto agitando la sua folta chioma riccia e che, rallentando e sorridendo, gli carezzò la testa. Quell’autografo, in quella agenda, su quel soppalco: ancora oggi, là. Insieme al ricordo di quella carezza.

Così, cominciò il 1985 ed il Napoli siglò il famoso patto di Vietri: la squadra andò in ritiro e dopo un discorso di Bruscolotti e di Maradona, a cui il primo cedette la fascia di capitano, prese a vincere. Vinse 4-3 con l’Udinese sotto una pioggia infinita, e Maradona segnò due rigori. Sempre Maradona stoppò ed incrociò a volo e il Napoli vinse a Firenze. E poi, a febbraio contro la Lazio, in un giorno triste per la morte del nonno di un amichetto di quel ragazzetto, Maradona fece tre gol, uno cadendo all’indietro spalle alla porta semplicemente immaginando nella sua iperbolica fantasia il posizionamento di avversario, portiere e porta; ed un altro direttamente dalla bandierina del calcio d’angolo. Ed a Napoli esplose la gioia. Ma niente, niente fu paragonabile, in quell’anno, a ciò che accadde il 3 novembre (proprio un 3 di novembre: un giorno in cui – 13 anni dopo – la sorella del nostro protagonista sarebbe diventata mamma), quando la juve di trapattoni che aveva vinto di fila le prime 8 di campionato scese al san Paolo in un giorno di diluvio epocale. Perché al minuto 27 della ripresa, quel ragazzino che ascoltava per radio in cucina “Tutto il calcio minuto per minuto” sentì Enrico Ameri urlare impazzito per una cosa fenomenale, una cosa che non si era mai vista, mentre la pioggia sembrava non finire più, come l’abbraccio tra il ragazzino e sua madre dopo quella punizione impossibile. “Maradoro” –  titolo il Mattino il giorno dopo, e lui ritagliò quella immagine nella sua memoria azzurra.

Quel Natale del 1985 i fratelli ebbero in dono il commodore, dopo una fantastica caccia al tesoro organizzata dai genitori, che culminò in un indizio surreale: di cercare dietro il “Marchesì” – con l’accento sulla ì. Marchesi – senza accento – era stato proprio l’allenatore del Napoli l’anno prima, il primo anno di Maradona. Sostituito da Ottavio Bianchi, si era trasferito al Como. Quindi marchesì – con l’accento sulla ì, equivaleva a comò – con l’accento sulla ò: il pacco contenente il computer, era nascosto dietro il comò della camera da letto: ora su quel comò ci sono due foto ed un’urna cineraria.

Ma quel regalo indescrivibile, quel commodore 64 del natale del 1985, amplificò il legame dei due fratelli attraverso la loro rivalità: tra cucina e stanzetta, tra radio e poster, tra giochi e sfide a Manic e Pipeline. Mentre il più piccolo, il lunare estroso bimbo biondo, si accingeva a partire per la toscana. E fu proprio in occasione della sua cresima, lui già di stanza a Livorno, che tutta la famiglia intraprese quel meraviglioso viaggio di fine maggio, tra macchina e treno. E nel ricordo del ragazzetto, quel viaggio di ritorno verso casa rappresenta uno dei momenti più intensi della sua adolescenza, perché oltre alle gioie che aveva vissuto in quel giorno, se ne aprivano altre: quel sabato di fine maggio del 1986, infatti, l’Italia da Campione del mondo inaugurava il mondiale di Messico ’86.

E furono quei mondiali a sancire il definitivo patto d’amore tra quel ragazzino ed il suo Campione. Perché quando l’Italia fu eliminata, e quando l’Argentina avanzò agli ottavi, il nostro protagonista si trovò con suo padre, la sera del 22 giugno, in quella stessa cucina e con quella stessa televisione della notte di due anni prima, del 30 giugno delle scritte in sovraimpressione, ad assistere alla più grande esibizione che si sia mai vista su un campo di calcio. Tanto che quando Maradona, in 10 secondi, partendo da centrocampo, e scartando tutta la nazionale e la nazione britannica, segnò il gol del secolo – non di quel secolo, ma di qualunque secolo – quel ragazzino si lancio a terra stralunato di meraviglia con una tale incosciente spregiudicatezza e contentezza da travolgere e far cadere sul pavimento tutti gli attrezzi del camino, che rotolando si produssero in un suono infernale e festoso che ancora oggi riecheggia in quella stanza, oggi che il camino è spento da decenni e che quegli strumenti non lavorano più, immobili nel tempo e rimasti però a scolpire quel fotogramma della memoria.

Quel ragazzino vide vincere il mondiale al suo campione, il 29 giugno a Siracusa, con suo cugino che tifava per i tedeschi, dopo un viaggio bellissimo in treno da Napoli alla Sicilia fatto con la nonna. Quella nonna che fu la prima a prenderlo per mano e portarlo in quel formicaio del mercatino di Poggioreale a comprare la maglia con l’immagine di Maradona; ed a cui quel furbetto chiedeva di comprare l’olio sponsorizzato dal suo idolo, la prima pubblicità fatta in Italia di cui non si trova più traccia. Quella nonna che durante quel viaggio gli parlava appunto dei santi, e lui che le parlava appunto di Maradona: per molti versi, dicevano le stesse cose.

L’estate del 1986 si allungò da Siracusa a Vico Equense con tutta la famiglia: un periodo meraviglioso per quel ragazzino che stava crescendo, e che a settembre sarebbe andato al Liceo.  Ma quel settembre non cominciò bene perché il suo campione venne trascinato in una triste storia di paternità rivendicata, ed il ragazzo cominciò a temere che questo avrebbe compromesso la bravura del suo idolo, distratto e distrutto da tante polemiche. E infatti, nella notte dei rigori di Tolosa, al primo turno di Coppa uefa, quando Maradona si presentò sul dischetto per l’atto decisivo, il ragazzo ebbe paura, ed allora uscì fuori dalla cucina per non guardare in televisione il tiro dagli unici metri, per la prima volta nella sua vita (la seconda sarebbe successa allo stadio, il 3 maggio del 1989). E infatti quel tiro finì sul palo. Ed il Napoli fu eliminato.

Ma da quì, da lì, da quella notte, cominciò un’altra storia. Una storia che sarebbe culminata in un 10, come il numero di maglia del Fuoriclasse. Il 10 di maggio del 1987. Talmente tutto intenso, ed immenso, ed indimenticabile, per un ragazzo di 14 anni, che quel ragazzo vi scrisse un racconto, il racconto più bello che sia stato mai scritto su quella cavalcata trionfale del Napoli dell’87. Perché scritto dal cuore di un fanciullo di 15 anni, quindi al culmine della più grande delle felicità che si possa immaginare.

1987: fu l’anno del suo primo bacio, un giorno prima della doppietta di Maradona ad Udine.

1987: la prima volta che lo vide allo stadio, con lo zio ed il cugino, a marzo contro la Juve – quando la Roma perse ad Udine, il Napoli andò in fuga, lo stadio tremò di passione e lui pensò che ci fosse il terremoto.

1987: la prima volta che vide Maradona segnare allo stadio, il 26 aprile contro il Milan, nel giorno che sua sorella decise che da quel momento lui sarebbe stato con lei sui gradoni, che doveva esserci, che doveva viverlo. Ed anche se quel giorno Maradona nascose a mezzo stadio ed a tutti i distinti – dove fratellino e sorella si trovavano – il palleggio con cui schiantò il Milan, perché troppo veloce, troppo abile, troppa magìa in quel gesto, due settimane dopo, come detto 10 maggio, loro due, fratellino e sorellona, erano ancora insieme mentre il Napoli si laureava per la prima volta campione d’Italia, e questa volta si vedeva bene, come si vedeva bene Maradona – fuoriclasse assoluto – saltellare per il campo da Capitano Campione d’ Italia.

Ed un mese dopo, Maradona capitano alzò la coppa italia mentre quel ragazzo era a Baia, perché quegli zii e quei cugini della prima volta allo stadio vi si erano trasferiti. Una coppa italia entrata nella storia, perché culmine di un percorso costellato di sole vittorie, tutte vittorie: un record che per definizione non potrà mai essere battuto.

Poi, tutto tracimò e tutto corse veloce e tutto si impresse in modo incancellabile in 3 giorni (dal 28 al 30 settembre) che cambiarono per sempre l’immaginario di quel ragazzino. Lui, che con i suoi fratelli maggiori durante la favolosa estate a Vico Equense (sarebbe stata l’ultima passata insieme da quella famiglia ma nessuno poteva immaginarlo) era stato al suo primo concerto, il 19 agosto a Cava De’ Tirreni, per vedere Vasco Rossi, il 28 settembre a Napoli, stadio collana, avrebbe riassistito a quel concerto, e Vasco Rossi quella sera avrebbe cantato una canzone intitolata: “15 anni fa”. Quella sera, incredibile: proprio la notte in cui quel ragazzo avrebbe compiuto 15 anni. E per i quali avrebbe ricevuto dalla sorella un regalo inestimabile: il biglietto da 120.000 lire per i distinti, 30 settembre mercoledì, in occasione della prima partita della storia giocata dal Napoli al san paolo in coppa dei campioni. La partita (il più bel primo tempo di calcio mai visto) di quando quella sorella dovette placare a schiaffi le urla isteriche del suo fratello minore.

Ma il Napoli da quella coppa, dopo quel pareggio, venne eliminato. Eppure, stravinceva in campionato. Domeniche autunnali ed invernali di vittorie e di pioggia, in cui le uniche preoccupazioni di quel ragazzo erano legate ai viaggi che i suoi genitori, ogni 15 giorni, facevano in macchina per andare a trovare a Livorno quel biondo, lunare, inarrivabile fratellino minore.

Intanto Maradona fu ancora campione d’inverno, nel gennaio del 1988, quando espugnò Marassi con un tuffo nel fango che quel ragazzo replicò nella stanzetta, sbucciandosi le ginocchia col suo incosciente entusiasmo.

E poi tutto cambiò: la storia di questa famiglia, di quel ragazzo, e di quella squadra e di quel Fuoriclasse si ficcò in un incrocio di sconfitte e di dolore irreparabile. Anche qui altri tre giorni indelebili, tra la fine di aprile e l’inizio di quel maggio del 1988: le dichiarazioni del suo idolo lette sul giornale andando a scuola con la metropolitana: di non voler vedere nessuna bandiera rossonera allo stadio; ed il ritorno da scuola nel giorno in cui la mamma fu dimessa dall’ospedale. Sembrava un lieto fine, e invece: quello stadio finì per applaudire i rossoneri, in quel primo indelebile giorno di maggio dell’88, esattamente alla stessa ora – due giorni dopo – in cui quel ragazzo, rientrando dalla scuola alle 17.45 del 29 aprile, aveva appreso dalla bocca e dalle lacrime di sua madre ch’ella aveva un cancro. E quando la punizione irreale di Maradona allo scadere del primo tempo pareggiò illusoriamente il risultato, quello fu l’unico momento di felicità sospesa – per un attimo durato eternamente – da quei 4 mesi in poi, fin che gliela portarono via – la mamma, e l’adolescenza, nell’agosto che venne.

Ma quando finì quell’estate tragica, e ricominciò una nuova stagione, fu proprio contro il Milan, nella rivincita del 27 novembre, che Maradona andò ancora una volta oltre ogni logica, e segnò una rete che trattenne il respiro di un intero popolo per secondi durati minuti durante i quali la palla sembrava tentennare di fronte alla rete ed a tanta grandezza, man mano che vi si avvicinava: fu un pallonetto/di testa/da fuori area/in controtempo. Questa formula, quel ragazzo se l’è ripetuta per anni così: a pallonetto – pausa (senso della giocata straordinaria); di testa – pausa di stupore (lui, alto 1.68); da fuori area – pausa (senso della distanza dalla porta); in controtempo (col pallone che quasi tornava dietro, e quasi fisicamente impossibile da imprimergli forza) – pausa (di sconcerto stupore incanto assoluto).

In quell’autunno triste, in quell’inverno spoglio del 1988, c’era il campionato di qua. E la coppa uefa di là. Ci fu la settimana appunto perfetta: 20 novembre 5 gol alla juve a Torino, 23 novembre vittoria a Bordeaux, e 27 novembre – come detto: il pallonetto/di testa/da fuori area/in controtempo.

E c’era sempre la sorella che gli comprava i biglietti per quelle sfide europee in  notturna, con cui andava insieme a fuorigrotta salvo separarsi, fisicamente, fuori lo stadio: lei in curva, lui nei distinti. Fu grazie a lei che da quei distinti, la sera del 15 marzo, quel ragazzo vide Maradona cominciare con un rigore impeccabile la storica rimonta contro la juve, completata da Renica al 120° minuto, con un’esultanza letteralmente rotolata tra gradoni ghiacciati di cemento, circondato da tifosi venuti da torino – juventini – che lo aiutarono a rialzarsi, con lui che capriolava di pazzìa e che ebbe rispetto, si fece aiutare a sollevarsi, si prese i complimenti dei tifosi avversari ed ebbe la sua prima lezione di sportività da stadio, data e ricevuta. Ed era sempre lì, sui distinti, il 5 aprile della semifinale col bayer, quando il suo idolo lanciò Careca in porta al 40° del primo tempo, sotto una pioggia incalzante, e qualcuno – un pazzo, un genio – esultò urlando che “era uscito il sole”. Ed era lì, nei distinti, il 3 maggio del 1989. Poche ore prima, a casa, mise la sveglia sul casio alle 16.30 del pomeriggio, che la sorella sarebbe passata da lavoro a prenderlo, per andare allo stadio insieme. E quella sveglia, quel ragazzo poi adulto, la lasciò a perenne memoria (finché il casio si spense nel 2011) per tutti i successivi 3 maggio che vennero. Quel 3 maggio in finale, quando per la sola volta nella sua vita da stadio (e seconda in assoluta, dopo il settembre del 1986 in tv col Tolosa) voltò le spalle al campo mentre Maradona batteva il rigore che avrebbe pareggiato il vantaggio dello stoccarda, troppo emozionato per poter reggere lo sguardo su quegli 11 metri tra sé e la speranza, e quasi sull’orlo dello svenimento. Quel 3 maggio che di ritorno dallo stadio comperò la sua prima sciarpa, quella stessa sciarpa che, a distanza di 18 anni, avrebbe legato – perennemente ed a tutt’oggi – alla ringhiera del balcone di quella stanzetta di quei tre fratelli, quando il 10 giugno del 2007 (ma questa è un’altra storia)  il Napoli ritornò in Serie A, e proprio nello stesso giorno in cui il suo fratello biondo, lunare, inclassificabile fuoriclasse sarebbe tornato a vivere vicino a loro, e che lui – quell’adolescente del 1989 ora adulto del 2007 – era andato a prendere, il giorno prima, insieme al padre con la macchina, il padre delle partite in cucina, nell’ultimo viaggio insieme delle loro vite, andata e ritorno da Napoli a Collesalvetti in un solo giorno, sabato 09 giugno 2007. Ma il primo, il primo di questi viaggi, ci riporta a maggio, per tornare al nostro racconto, ed esattamente due settimane dopo quel 3 di maggio, il 17: quando con due assist (uno di testa, a pallonetto, da fuori area, a volo: ricorda qualcosa?) Maradona consentì al Napoli di alzare la coppa. E appunto lì, suo padre a sorpresa, in modo inatteso, imprevedibile, quasi come una finta del suo idolo, al termine della visione della partita (sempre insieme, sempre in quella stessa cucina), lo prese con sé e lo portò per le stade di Napoli a festeggiare. Fu il primo momento in cui si ritrovarono insieme, da soli (pur travolti dall’esplosione di gioia collettiva delle strade), felici, ad abbracciarsi dopo la perdita di una madre e di una moglie. E questo fu il 17 maggio del 1989, ed il loro lungo viaggio insieme nella lunga notte di una città impazzita sul tetto d’europa.

Venne l’estate, l’estate dei dorados, e di Maradona che voleva andare via. Ma così non fu. Ed anzi, quando a settembre si riaffacciò al San Paolo, entrando in campo nel secondo tempo di Napoli Fiorentina, pur sbagliando un rigore a pochi minuti dall’inizio della ripresa, trascinò con la sua sola presenza gli azzurri ad una rimonta strepitosa, ribaltando lo 0-2 in 3-2. E marchiando a fuoco il senso di quel campionato, che sarebbe stato proprio il torneo delle rimonte impossibili, spesso negli ultimi minuti. Eppure, in Coppa uefa, da detentori del titolo, gli azzurri stentarono: passarono il primo turno con lo Sporting Lisbona solamente ai rigori, nel mercoledì che precedette il 17° compleanno del nostro ragazzino oramai quasi adulto, il 27 settembre, proprio il giorno in cui il padre gli regalò il primo motorino. Ed era sul motorino che si trovava due mesi dopo, insieme ad un compagno juventino che ritroveremo nel corso di questo racconto, scappando da Napoli Werder Brema nella disfatta del 22 novembre, anticipo di quella che sarebbe stata una delle più grandi caporetto sportive del Napoli del suo idolo, il ritorno in terra tedesca funestato da 5 marcature avverse, nel giorno dell’onomastico di suo padre, il 6 dicembre del 1989, mentre suo fratello maggiore si prendeva una rivincita sportiva esultando di nascosto ad ogni rete nemica, spalleggiato dal suddetto compagno di tifo contro.

Sì: perché la maggiore età del suo fratello dal cuore granata, e la conseguente patente, e la macchina, aveva accorciato le distanze tra loro ed un gruppo di amici con cui ci si vedeva spesso, e sempre in quella casa: il loro storico fratello giallorosso, nato per errore in un’altra famiglia (ma nella famiglia più giusta in cui nascere), e l’amico di liceo del nostro protagonista, juventino d’elezione, che per questi stessi intrecci della vita qui esplorati sarebbe poi diventato cognato di quello stesso fratello maggiore. Una combriccola sconclusionata e confusionaria di adolescenti che lì, in quei tempi, in quella casa, in quella città, attraverso quelle rivalità, le mille sfide, le mille storie, i loro intercambiabili ed occasionali altri compagni d’avventure, hanno edificato separatamente ed unitamente le leggende indimenticabili dei loro ricordi di gioventù, reali od immaginari che siano: perché è così che si passa da essere adolescenti ad essere uomini. Anche così. Soprattutto così.

Eppure, fu proprio, sempre ed ancora suo fratello maggiore che gli diede la notizia della doppietta di Maradona, nell’unica domenica in cui il nostro protagonista era tagliato fuori dal mondo del campionato: il 25 marzo del 1990, durante la gita in Olanda con la scuola. E dolcissimo, onesto, fu quel “purtroppo” con cui suo fratello (a cui il nostro protagonista, durante quella stessa gita, rivolse forse il suo pensiero d’amore più acuto, mai detto e ed immalinconito di tutte le loro esistenze, telefonando a casa, in un pomeriggio a caso di quell’esperienza olandese, per sapere come stavano lui ed il padre) aggiunse che anche il Milan aveva vinto, a Lecce. E che i giochi per quella volata pazzesca di un campionato dominato nel girone d’andata, e perduto prima, quasi ripreso poi, erano rimandati alle ultime successive 4 sfide.

Ma ne bastò una di domenica, il 22 aprile – dopo due turni interlocutori – per sigillare il secondo scudetto. L’impresa di Bologna e la fatal Verona rossonera, in un esatto ribaltamento di ciò che era avvenuto due anni prima. Con un prosieguo post-partita indelebile, il nostro protagonista sul suo letto a ridere isterico di gioia, e suo padre con la radio a tenergli compagnia. Il tutto nel giorno del compleanno di un altro padre, quello del suo compagno juventino, tifosissimo degli azzurri, ed a cui il nostro protagonista regalò, 7 giorni dopo, il biglietto per lo stadio del secondo tricolore. Perché sì, questo intreccio di storie, di date, di gioie e dolori, ha un risvolto combinatorio davvero impressionante. Maradona capitano tornò Campione d’Italia il 29 aprile del 1990, alle ore 17.45: esattamente due anni prima, stessa ora, stesso giorno – 29 aprile 1988, ore 17.45 – quel ragazzo liceale, l’ho già scritto e lo ripeto, stava apprendendo dalle parole della madre quella amara, funesta, irreversibile verità raccontata sopra. Ed una stessa combinazione assurda di date si avrà qualche mese più tardi, quando Maradona ed il Napoli tornarono in Coppa dei Campioni e presero parte per l’ultima volta a quel torneo, che negli anni avrebbe cambiato prima formula e poi nome. Perchè dopo aver superato il primo turno, il Napoli giocò quella che sarebbe stata la sua ultima partita in Coppa campioni al San Paolo il mercoledì 24 ottobre. La sera stessa in cui il nonno del nostro protagonista, il papà di sua mamma, se ne andò.

Del resto, i figli di questa famiglia, hanno conosciuto la loro età maggiore esattamente: la sorella, nel 1984 – anno di arrivo di Maradona al Napoli; il fratello maggiore, nel 1987 – anno del primo scudetto (che può suonare come un regalo beffardo da parte del Fuoriclasse argentino, per lui cuore granata); il nostro, nel 1990 – anno del secondo scudetto azzurro; e l’ultimo, pur nella sua incosapevolezza, nel 1994, nel luglio del 1994, nel luglio dei Mondiali del 1994 – gli ultimi mondiali giocati da Maradona, con lo storico gol alla Grecia (4 presenze consecutive in 4 mondiali con almeno un gol), l’urlo di tigre nella telecamera, e poi la cacciata indegna di potentati indegni.

Ma quel 1990, dopo il secondo scudetto, ed una seconda travolgente ondata di festeggiamenti in città, fu appunto anno di Mondiali, di Mondiali in Italia e di uno snodo incredibile da immaginare, e che pure andava immaginato, ed in qualche modo calcolato e quindi evitato: la semifinale tra l’Argentina di Maradona e l’Italia. A Napoli.

Di qui, come tutti sanno, la storia tra il paese italico e Maradona lasciò spazio a vendette e veleni: venne un campionato azzurro mediocre (in cui il Napoli, altra circostanza incredibile, vinse la sua prima partita nel primo giorno in cui il nostro protagonista diventò maggiorenne) venne una coppa dei campioni persa ai rigori a Mosca, dopo il doppio 0-0 del 24 ottobre detto sopra, ed il ritorno del 7 novembre, e nel 1991 si giunse alla fine della storia, ai titoli di coda, nel modo più annunciato, complottardo ed umiliante: la provetta di urine, l’antidoping, ed una fuga notturna in solitudine. Ma anche qui, non mancò una strana magia, un simbolismo assurdo, una chiusura del cerchio da brividi: 24 marzo, ultimo gol di Maradona in campionato, contro la Sampdoria su calcio di rigore, esattamente come era cominciato tutto, in quel settembre del 1984. Ed ancora e sempre contro la Sampdoria, sempre in quel marzo del 1991, l’ultimo gol di Maradona al san paolo, in coppa italia, di testa, in uno scialbo mercoledì di una fredda serata, dove quel ragazzo, sempre dai distinti, prese congedo dal suo Campione per sempre, in viva visione.

In quell’aprile del 1991, da quell’aprile, il ragazzino di dodici anni che era cresciuto tra vicende di famiglia, di amici, di scuola e di calcio intrecciate inestricabilmente, lasciò spazio definitivamente al ragazzo adulto, il ragazzo oramai diciottenne, il ragazzo della maturità liceale, e degli anni che sarebbero venuti: l’università, il lavoro, i lutti. Ma spesso, legati indissolubilmente dall’amore ed all’amore per il loro idolo inarrivabile, quell’adulto e quel fanciullo che fu si ritrovarono insieme a godere delle gioie che Maradona continuava a spargere nella storia del mondo. Le apparizioni televisive. L’addio al calcio registrato su una vecchia VHS collegata a quel vecchio televisore di quella cucina sempre meno affollata. Gli abbracci ricevuti a Praga dal nostro protagonista, nel 1997, in compagnia del suo amico giallorosso, quando in un pub della città alcuni ragazzi di bergamo (di bergamo!) gli chiesero di raccontare Maradona, loro di Napoli, loro che lo avevano visto, avevano assistito all’Oro di Napoli! E sempre un addio al calcio giocato, quello di Ferrara nel 2005, sancì per un giorno il ritorno del Re nella sua amata Napoli, una città paralizzata ed una riconciliazione universale tra l’idolo ed ogni singolo cittadino di questo paese, che giunse a livelli inesplorati e parossistici, come testimonia una mail che quell’amico juventino mandò al nostro protagonista, una mail che lui ancora conserva, dopo 15 anni. E poi ancora: la maglietta definitiva acquistata al museo Maradona, con cui presenziò al matrimonio di un altro fratello di vita, nel luglio del 2012. E due anni prima, il tifo incondizionato per il suo idolo allenatore dell’Argentina mondiale

Intanto, la sorella maggiore aveva avuto due figlie; e così il fratello maggiore. Il padre, come detto, fu protagonista di un ultimo viaggio insieme, il 9 giugno del 2007, quando il fratello più piccolo, anch’egli oramai adulto, ma sempre metafisico ed inarrivabile, venne portato da Collesalvetti a Napoli, dormì in quella casa un po’ meno vuota, assistette al ritorno del Napoli in serie A il 10 giugno del 2007, e dai suoi occhi celesti – come il cielo di quel pomeriggio – osservò suo fratello, il protagonista di questo racconto, recuperare una vecchia sciarpa da un cassetto, la sciarpa del 3 maggio di 18 anni prima, e gli vide fare un nodo alla ringhiera del balcone di quella che venti anni prima, e prima ancora, era stata la stanzetta dei giochi di 3 fratelli.

E poi, il giorno dopo, tutti quanti, padre e fratelli e sorella, accompagnarono il ragazzo più piccolo nella sua nuova casa, a CastelCampagnano. ma anche questa è un’altra storia. In apparenza.

Perché, rimasto solo in quella casa, testimone delle sue memorie, le più belle e le più brutte, il nostro protagonista, oramai uomo adulto, giunto nel mezzo del cammin della sua vita, ed avanzato anche oltre, non si faceva mancare occasione per chiamare accanto a sé, dal dentro di sé, quell’adolescente di 12 anni con cui, e grazie a cui, era cresciuto. Ogni pretesto era buono: una foto, una canzone, un ricordo, un film. E il loro tramite, il pretesto, la scusa più bella, era il più delle volte legata al loro idolo comune, Maradona.

Così, una sera del novembre del 2019, il giorno 25, alle ore 17, l’adulto – amante del cinema – chiamò al suo fianco quel fanciullo, per vedere insieme il film che tempo prima fu proiettato al Festival di Cannes, film su Maradona, con filmati inediti di Maradona, e filmati forniti proprio da Maradona: un docu-film incentrato esclusivamente su quei 7 anni napoletani del Fuoriclasse assoluto. Logico, emotivamente e razionalmente logico che quel film lo vedessero insieme, quell’adulto e quel fanciullo: riguardava la loro vita allo stesso modo, nella stessa misura e con la stessa intensità. Così, due ore dopo, si commossero e piansero insieme: era stata una bellissima visione, ed un bellissimo pomeriggio, quel pomeriggio del 25 novembre del 2019 cominciato alle ore 17.

Poi (ed in questo poi c’è tutto l’orrore che si possa concepire, tra cui il più straziante dei lutti) si giunge all’anno dopo.

Non “un anno dopo”: un anno preciso, secco, calcolato al millimetro. 25 novembre 2020 – ore 17. Quel ragazzo, oramai adulto, oramai stanco, sfiduciato e disilluso da tanto dolore, eppure ancora vivo, ancora vigile, ancora in controllo, è seduto alla sua postazione di lavoro, in una sala deserta di un centro diagnostico. Distrattamente alza la testa ed indirizza lo sguardo verso il televisore dell’accoglienza. E sul canale delle notizie, c’è una scritta in sovraimpressione. Perchè questa storia cominciò con una scritta in sovraimpressione, e sempre per questa assurda, circolare ed incontrollabile fatalità del caso, con una scritta in sovraimpressione doveva finire, irreversibilmente.

Come un anno prima: lacrime. Di genere esattamente opposto. Due ore di lacrime, due ore di lacrime rumorose, inconsolabili, che lo accompagnano dalla sua postazione di lavoro alla macchina, e dalla macchina alle strade del ritorno, e di qui alle scale, alla casa, all’accensione della televisione di quella cucina. E’ stato lì, in quel momento, in quella cucina, che il ragazzino e l’adulto si sono dati un ultimo appuntamento, perché in tutte le cose della vita c’è un inizio, e purtroppo una fine. Eppure in quel loro ultimo appuntamento, il loro ultimo incontro, l’ultimo abbraccio, non erano soli e non erano stati lasciati soli dal loro idolo tanto amato. Quella sera del 25 novembre, proprio come un anno esatto prima, Maradona era lì con loro, attraverso tutti i ricordi e le storie ed i racconti di questo racconto, le storie di 7 anni, di una vita, e di una famiglia, di nonni, di genitori, di fratelli, sorelle, amici, e partite, stadi, esultanze, disperazioni, risate, urla, e film, ed emozioni, emozioni incredibili, uniche ed irripetibili. Tuttte le storie con cui Maradona li aveva accomunati e legati per sempre. E, come per quell’adulto, in quella casa, in quella stanza della cucina, così in altri milioni di appartamenti, di case, di strade, di tutto il mondo. Maradona è arrivato, ha preso per mano quel fanciullo, con la sua famosa mano, la mano de Dios, e l’ha portato via, via da quell’adulto, lo ha portato con sé, perché un Fuoriclasse non è fatto per gli adulti, gli adulti sono adulterati, hanno perso il sogno, la magia, la speranza, l’illusione. Ed il più grande di tutti, il più grande artista di sempre, per continuare a recitare, a regalare gioia e magia, anche dopo la sua morte, deve poterlo fare per un pubblico speciale in un luogo speciale, e allora chi, meglio di un fanciullo, merita di assistere ad uno spettacolo puro che non morirà mai?

Così, proprio così è finita questa storia: in quella stessa cucina. Senza più quel padre, perso nella dimenticanza di una malattia irrecuperabile. E senza più quel lunare, magnifico, stordente di innocenza e di purezza fratellino minore, che lasciò questa sferica terra all’inizio dell’anno, di quest’anno peggiore di sempre. E che giace, spoglie mortali, in un’urna posizionata su quel comò. Il famoso comò di Marchesì, della fantasia di due genitori e del regalo più bello che accomunò gli altri due fratelli.

Ad un tratto, come repentina geniale invenzione calcistica, una giocata ad effetto: Maradona ha dribblato quell’adulto, ha preso per mano quel fanciullo, ed è andato in rete nell’empireo universale, negli abissi astratti dell’infinito che a noi non è dato vedere, mai più. Si è portato via il fanciullo, e per la prima volta nella sua vita, e da quel momento, quel ragazzo oramai adulto è rimasto da solo, come mai era stato.

Quindi, ogni volta che tu mi chiederai di parlare di Maradona, io probabilmente resterò muto, e se avrai occhi e sentimento per capire quel silenzio, comprenderai che tutto è scritto qui, in questa storia di una famiglia, e del bambino più coccolato di quella famiglia, e del racconto di come quel bambino, divenuto adulto, perse la sua ultima partita congedandosi per sempre dal fanciullo che fu, la sera in cui Maradona morendo rese la terra meno sferica.

Perché quell’adulto sono stato io.

 

 

 

vorrei poter dire (scrivere sì, lo sto facendo, per fortuna è ripreso tutto) che le ferite umane inferte a me da questo anno indescrivibile non verranno rimarginate dal tempo, mai, ed eppure sarebbe una cosa detta con così tanta incisiva essenzialità quanto con così poca – anzi nulla – enfasi, da assurgere a dimensione di dato di fatto universale incontrovertibile. Voglio dire: senza accuse per alcuno, senza sentimenti di delusione, di ripicca, di acidi riproponimenti di futuri sguardi e gesti negati, no no: nulla di ciò. Dovrei enumerare cosa? oggetti, muri, persone, stanze, voci – tutte cose fallaci. Perché qui chi scrive sono io: io che dal non aspettarsi nulla dagli altri posso farci con delicata poesia Leopardiana il modo più bonario e gentile con cui lo si potrebbe evidenziare nel suo significato più profondo, essendo ciò la norma di natura, che funziona così, quindi a suo modo (od a sua moda, una sfumatura di eleganza sopraffina) splendida, gelida, regale, pura e vera. Quindi qui insomma ferito perpetuo e non deluso, un applauso silenziato da me: che mi sollevo dall’incarico di recitare l’appercezione trascendentale che si trasale in questo anno raccapricciante, potendo avanzare con un sorriso tremendamente inguardabile (sto scrivendo, come lo vedo?): che ho così tanta musica nella testa che questo sì che lo riesco a scrivere, a dirlo ed anche – danzettando, tipo esempio ieri sera mezzo ubriaco con mezzo boccone, molto a modo mio – anche a cantarla, senza obbligo o necessità (nel momento in cui ho scritto “appercezione trascendentale” mi sono posto ad un livello di poco superiore al mio, una circolarità così sferica da mettere a referto il pianeta numero 11 nel sistema solare) senza obbligo o necessità di voltarmi per guardare con rabbia.
Quale onore tale Libertà.

Sergio

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Non di meno di me non dimentico che
non sia se, ma sia quando – da bere mi verso
pare vero che tutto mi appare diverso
fu così che da serio trasfor-matto mi avverto
ed è qui che comincia il mio verso.

che attraverso lo spazio si avventura nel vento
mentre il tempo si fa controverso
si ripiega di sfera a se stesso
e da un punto di me vado oltre e ci resto
ma mi sposto più lesto e mi do pure il resto
ci divento di spirito alcolico puro
di converso mi riverso mi denudo e rivesto
lo riverso dal mai del mio dentro estroflesso
tutto quello che ho vinto ed ho perso
e i dolori per gioco si fanno colori
e il bicchiere è il mio specchio di fuori.

questo è il corso
un percorso perenne necessario per-verso.

Tutto questo sono io: lo confesso
vostro onore arrestatemi pure
ciò che resta – a voi lo dico – porta al puro di me:
Tutto questo è per TE.

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